martedì 28 giugno 2016

CONSTRAINT, Enlightned by darkness (2016)


I Constraint sono una band di metal sinfonico vicino ai canoni e allo stile dei Nightwish e degli Epica e dopo un demo del 2012 e diversi cambi di line up giungono finalmente al primo full lenght, Enlightened by darkness. Il gruppo di Modena, forte anche dell’attività live di questi anni, arriva a questo debut con un discreto numero di idee e una conoscenza indubbia della materia sinfonica. Non ci sono grandi variazioni nello spartito dei Constraint, ben calati nel contesto epico che il genere esige e con la voce operistica di Beatrice Bini che imperversa lungo i 35 minuti del disco, brava nel suggellare l’ottima prova dei musicisti presenti (Alessio Molinari alla chitarra, Simone Ferraresi alle tastiere, Federico Paglia al basso e Alessandro Lodesani alla batteria). I cinque appaiono molto attenti nel lavoro sulla scrittura, abili nel creare arrangiamenti ad hoc (bello il lavoro di rifinitura di Ferraresi), melodie immediate e passaggi evocativi in cui emerge anche il tocco di Molinari, bravo sia nelle parti ritmiche che nei soli. L’ensemble ha una certa cura nella costruzione di dinamiche coinvolgenti e mai troppo prolisse, un impianto heavy che si sposa con trovate di facile lettura che rendono l’album scorrevole e piuttosto fresco. Parte subito forte Behind the scenes, caratterizzata da un ottimo lavoro della Bini e da accurate orchestrazioni Nightwish style, che si levigano a favore di una maggiore intensità in Talking dumbs prima e The ending of time poi, uno dei pezzi meglio riusciti tra i presenti. La potenza dei modenesi si placa con Illusion of a dream, ma è solo un attimo, perché The birth torna sui binari più congeniali al gruppo, con ritmiche interessanti e piuttosto metal. La suggestiva Breathing infinity apre la porta ad una title track tirata e ricca di potenza, mentre Oniria conclude magistralmente un disco gradevole, intenso e di sicuro interesse per chi ama certe sonorità. (Luigi Cattaneo)

Enlightned by darkness (Video)

domenica 26 giugno 2016

GECKO'S TEAR, Primati (2016)


Nati più di dieci anni fa, i napoletani Gecko’s Tear guidati da Claudio Mirone (chitarra e voce) tornano con un nuovo album contraddistinto da un sound che riesce ad unire l’amore per gli anni ’70 progressivi con la forma canzone, senza però mai scadere in composizioni semplici o eccessivamente immediate. Aspetti che avevamo già riscontrato nel debut Contradiction (2006) e che qui forse sono più a fuoco, marcando un disco che potrebbe piacere tanto ai fan del prog quanto a chi ascolta l’indie rock dei Med in Italy e dei Marta sui Tubi o addirittura il crossover dei System of a Down. Indubbiamente sarebbe un peccato rimanere nel limbo dell’underground, vista anche la freschezza di certi momenti (basti ascoltare pezzi come Fastidio o La paura) e la capacità di toccare più stili (l’iniziale Impermeabilità con Fabio Renzullo gradito ospite alla tromba o Struzzo con l’ottimo Pietro Santangelo al sax), che porta Mirone ad immaginare un cosmo in cui si ritrova il pop inglese, il prog italiano e personaggi trasversali come Frank Zappa. La poetica del leader è proprio questa, unire mondi differenti in piena libertà e per far ciò si è avvalso di ottimi interpreti (Roberto Porzio al Rhodes e ai synth, Valerio Celentano al basso e Marco Castaldo alla batteria) che lo hanno seguito nelle sue idee bizzarre ma mai confuse e che riempiono questo concept incentrato sugli stati d’animo. Ritorno gradevole, speriamo di non dover attendere altri dieci anni per un nuovo capitolo targato Gecko’s Tear. (Luigi Cattaneo)
Per ulteriori informazioni e per acquistare l'album http://www.geckostear.com/

mercoledì 22 giugno 2016

STEFANO PANUNZI, Timelines (2005)


Era il 2005 quando Stefano Panunzi esordiva con Timelines, un album raffinato e corale che avrebbe meritato maggiore visibilità tanta è la qualità che emerge da questo platter. Un lavoro di grande spessore in cui convogliano atmosfere tipiche della psichedelia e del progressive inglese e che vanno ad incontrarsi in modo omogeneo con istanze jazzate e aloni elettronici, che riempiono Timelines di riferimenti ai King Crimson, ai Porcupine Tree, a Brian Eno e al dark wave, soprattutto per i tappeti tastieristici di Panunzi, davvero bravo nel disegnare certi scenari. Opera corale perché ha al suo interno tanti musicisti di diversa estrazione che hanno creato soluzioni, costruito frammenti, dato impulso alle idee del mastermind, abile regista nell’utilizzare al meglio gli interventi “esterni”. L’iniziale title track è la song più immediata, complice anche la brava Sandra O’Neill alla voce, mentre ci caliamo davvero nelle atmosfere che caratterizzano l’album dalla seguente Underground, con Giancarlo Erra dei NoSound alla voce e Markus Reuter come sempre avanguardistico nel suo modo di suonare ambient e warr guitar. Egregio il lavoro di Nicola Alesini (sax e clarinetto) e del compianto Mick Karn (ex bassista dei Japan) nella strumentale Everything 4 her e non è da meno Mike Applebaum (tromba) in No answer from you, due episodi che fondono il jazz con il prog in maniera perfetta. A metà disco sorgono un paio di monumenti sonori come l’inquieta Masquerade, guidata dal tocco di Karn e di Nicola Lori alla chitarra e Web of memories, dove il grande bassista forma con Gavin Harrison (batteria) una sezione ritmica incredibile e capace di accompagnare con precisione e classe la performance di Haco alla voce, che ha ricordato in parte quella di Bjork. A questo punto Panunzi piazza quattro strumentali sontuosi, The moon and the red house dove torna con decisione a presenziare Applebaum, Forgotten story in cui sono magistrali gli interventi di Alesini al sax, Tribal innocence con Karn e Applebaum a duettare in maniera coinvolgente e Something to remember che è animata dalle note del piano elettrico di Peter Chilvers che vanno ad incontrare quelle dell’onnipresente trombettista americano. Commiato finale per l’intensa I’m looking for, con Karn (qui anche alla voce) seguito da Applebaum, Erra alla chitarra e dallo struggente violoncello di Laura Pierazzuoli. Disco da recuperare! (Luigi Cattaneo)

I'm looking for (video)

sabato 18 giugno 2016

TWENTY FOUR HOURS, Left to live (2016)


Nati nel 1985, i Twenty Four Hours (Marco Lippe alla batteria, Paolo Lippe alle tastiere e alla voce, Antonio Paparelli alla chitarra e Paolo Sorcinelli al basso) rappresentano una piccolo culto del rock italiano e di come si viveva un certo tipo di musica a cavallo tra gli anni 80 e i 90, soprattutto per chi arrivava dal sud Italia, per l’esattezza da Bari. Da sempre attenti nel calare nella loro musica rock e psichedelia, artefici di dischi apprezzati tanto dal pubblico quanto dalla critica, eccoli tentare la carta del concept a distanza di ben 12 anni dall’ultimo lavoro. Left to live racconta cosa farebbe una persona consapevole di avere solo 24 ore di vita e lo fa con forza e consapevolezza, buoni mezzi tecnici e una produzione adeguata al contesto. Prodotto da Musea e distribuito da Pick up, l’album vive di trame pulite, strutture variabili, spinte psichedeliche che si uniscono al progressive e viceversa, pur senza dimenticare movenze new wave, periodo che li ha visti nascere e che li ha comunque plasmati, rendendoli quel gruppo crossover che ancora oggi rappresentano (il monicker stesso della band potrebbe riprendere un vecchio brano dei Joy Division). Tutto è molto raffinato e curato, sia nelle parti strumentali che nei frangenti dove la forma canzone prende il sopravvento, con i baresi che non eccedono in drammaticità ma tengono comunque elevato il senso lirico della narrazione. L’opera si mantiene sempre su buoni livelli, con dei picchi assoluti come Soccer killer, The big sleep o Perfect crime, pezzi dove riecheggiano i Pink Floyd, i Supertramp, i Genesis ma anche qualcosa dei The Cure. L’ampio uso di melodie immediate, di facile presa e il ricorso ad una musicalità che prende spunto dal progressive ma non ha paura di filtrare certe idee anche con frangenti pop, sempre mettendo synth, belle armonizzazioni, arrangiamenti eleganti e attenzione per il songwriting in primo piano, fanno di Left to live un ritorno di spessore che non deluderà chi già conosce la musica dei pugliesi. (Luigi Cattaneo)

Sister never born (Video)

giovedì 16 giugno 2016

ELEGACY, The binding sequence (2015)


Dopo uno stand by che pareva essere definitivo (Impressions risale addirittura al 2005 … ), tornano a gran sorpresa e con una line up diversa i torinesi Elegacy. Constantin Terzago (tastiere) e Massimo La Russa (chitarra) sono ancora presenti e le novità rispondono al nome di Ivan Giannini (cantante già di Derdian, Ivory e Backstage Heroes), Mark Zonder (batterista passato anche dai seminali Fates Warning) e Mike LePond (bassista dei Symphony x). Chiaro che con tre inserimenti di questo calibro il power prog degli Elegacy acquisisce spessore e profondità, senza lasciarsi andare alla foga di mere esecuzioni tecniche e puntando molto su impatto e forma canzone. Proprio questo aspetto permette a The binding sequence di convincere per buona parte della sua durata, dieci tracce che nel suo essere demodè (aleggiano i già citati Symphony x ma anche gli Athena di A new religion? e in parte i Superior) mostrano una band raffinata anche quando mette piede sull’acceleratore. Pathos e melodia combaciano nella miglior tradizione del prog metal in pezzi di grande valore come April sun e The dragon’s age e non mancano episodi più suggestivi e atmosferici, Autumn in Berlin su tutte. Primeggiano nello scorrere dell’album i fluidi interplay tra Terzago e La Russa, le solide ritmiche della coppia Zonder-LePond e la voce sicura e potente di Giannini, tutti elementi che sorreggono un disco di grande coralità, ottimamente suonato e ricco di spunti sicuramente interessanti per tutti gli aficionados di un certo progressive. (Luigi Cattaneo)

April sun (Video)

lunedì 13 giugno 2016

PAOLO SIANI, Una Nuova Idea di progressive

Paolo Siani ha iniziato la sua carriera sin da giovanissimo, all’interno di un circuito musicale, quello genovese, ricco di imput e di musicisti che di lì a poco avrebbero firmato pagine davvero importanti del rock italiano degli anni ’70 e non solo. E proprio nella cosiddetta Genova Beat dei ’60 nascono i Plep di cui faceva parte proprio Siani con Enrico Casagni. L’arrivo in formazione di Giorgio Usai come cantante e tastierista porta dapprima ad un cambio di nome in J.Plep e alla pubblicazione di un singolo nel 1969, L’anima del mondo. L’anno seguente arriva la svolta per la band ligure. Insieme ai 3 componenti storici entrano in formazione due validi chitarristi, Marco Zoccheddu e Claudio Ghiglino. La novità è dietro l’angolo. Dapprima la trasformazione in Nuova Idea e poi la musica che, influenzata dal rock anglosassone, diventa sperimentale e trasgressiva. Inizia la stagione dei concerti, la band si fa trovare da subito pronta e arriva la pubblicazione di un singolo dal sapore innovativo come Pitea, un uomo contro l’infinito. Il successo non tardò ad arrivare e nel 1971 la Nuova Idea partecipa al festival di Viareggio dove presenta un brano di 20 minuti figlio della nascente musica progressiva che sta contagiando anche l’Italia, Come Come Come, che viene poi riproposto nello stesso anno all’interno del primo disco In the beginning. L’album pur essendo ancora acerbo mostrava già quelli che potevano essere gli sviluppi futuri, soprattutto per merito di questo torrenziale brano dalle sfumature psichedeliche che si contrapponeva alle restanti composizioni decisamente meno ricercate. Grazie ad un intensa attività live la band viene accolta sempre meglio dal pubblico e nel 1972 pubblica Mr. E Jones, che vede la fuoriuscita di Zoccheddu a favore di Antonello Gabelli dei Corvi. L’album, un concept sulla giornata di un uomo qualunque, si presenta più omogeneo e ricalca quelle che erano le prerogative tanto in voga ad inizio decennio, richiamando alla mente altri grandi gruppi come New Trolls e PFM. Si tratta di un disco più fluido e continuo rispetto al precedente, un passo avanti verso il disco della maturità che arriverà l’anno seguente, nel 1973, ossia Clowns. Ancora un rimpasto di formazione porta Ricky Belloni a sostituire Antonello Gabelli e la novità si fa subito sentire. Un album pieno di idee, compatto, articolato. Il merito ovviamente non è solo di Belloni, che comunque risulta fondamentale per il suo modo granitico di suonare la chitarra e per la sua voce a dir poco graffiante, ma di tutta la band che appare finalmente coesa. In Clowns troviamo un po’ di tutto: psichedelia, spunti jazz rock, progressive, hard rock. Il risultato finale è un disco ricco di pregevoli spunti, equilibrato nel suo incedere melodico ma di grande impatto, ricco di variazioni e di parti strumentali avvolgenti. Purtroppo sarà anche l’ultimo capitolo a nome Nuova Idea. La fine del gruppo porta Siani e Belloni a formare i Track e a pubblicare Track Rock nel 1974 insieme a Guido Guglielminetti in una sorta di sentito omaggio al rock’n’roll. Successivamente Siani incide con Equipe 84 e Opus Avantra, segno dell’apprezzamento riscosso dal musicista in quegli anni di contaminazione. Ma la musica a metà anni ’70 inizia a cambiare e così anche l’interesse e la curiosità per queste band e quindi Siani abbandona come tanti altri suoi colleghi quel mondo sonoro che in Italia aveva contribuito a creare e si trasferisce a Brescia dove decide di occuparsi di tutt’altro salvo poi ritornare nel 1994 con Chrysalis, uno spettacolo multimediale dal sapore elettronico. Ma, come si sa, il primo amore non si scorda mai e anche grazie ad un rinnovato interesse verso il progressive da parte di appassionati e addetti ai lavori Siani inizia a lavorare nuovamente ad un disco rock che sia ideale proseguimento di quella che è stata una stagione irripetibile per la musica italiana ma che contemporaneamente riesca a guardare in modo moderno alla situazione attuale.
Nasce quindi Castles, wings, stories and dreams a nome Paolo Siani and friends feat. Nuova Idea, un disco corale a cui partecipano compagni musicali vecchi e nuovi come Ricky Belloni, Giorgio Usai, Mauro Pagani, Marco Zoccheddu, Joe Vescovi, Roberto Tiranti giusto per citarne qualcuno e che caratterizzano l’album uscito ad inizio 2011 per l’etichetta genovese Black Widow, una delle più attente nel rilanciare certi tipi di suoni e sempre pronta nel proporre musica di qualità come in questo caso. “Ho ricominciato a scrivere, dapprima con risultati orrendi, lo devo ammettere. Io credo che la musica non sia un dono divino ma un esercizio quotidiano che va coltivato. Piano piano qualcosa ha iniziato a funzionare, qualche riff, qualche groove dalla forma piacevole e ho fatto una prima parte di lavoro dove ho scritto parole, musica e arrangiamento. La gestione è stata abbastanza semplice. Ho telefonato agli amici di qualche anno fa che, anche se sorpresi, hanno risposto positivamente. Abbiamo lavorato al disco via computer … Io mandavo le parti che avevo fatto tramite Internet e loro mi inviavano il file completo con il loro contributo. Qualcuno ci ha messo anche 6 mesi! La cosa fantastica è stata trovare una vicinanza e un affiatamento che ha dell’incredibile, come se fossimo stati in sala prove per settimane!” Ciò che ne scaturisce è un prodotto dalle varie anime, capace di coniugare il progressive con l’hard, il jazz con l’elettronica, in cui i suoni e le sue sfumature nascono da una maturità che forse non si aveva a vent’anni e che riesce ad avere uno sguardo sul passato glorioso del genere ma con un’attitudine moderna. “Anche se sono passati tanti anni e ho un’età diversa non sono un nostalgico e trovo abbastanza patetico quando uomini della mia età ripropongono sé stessi come erano più di 30 anni fa. Penso non sia sempre necessario. Ho preferito fare cose inedite senza compiacimento ma anche senza negare le sonorità che mi appartengono. Credo sia venuto fuori un disco di oggi.” E difatti non si può parlare di una reunion della Nuova Idea, quanto più di un nucleo allargato di musicisti che hanno partecipato attivamente alla creazione dell’opera, guidati da Siani, maestro cerimoniere e capitano di questo ensemble.
La Nuova Idea è stata al centro anche di un curioso caso, un piccolo mistero che per anni è rimasto irrisolto e ha appassionato i feticisti della materia. Difatti dietro le sigle Psycheground Group e Underground Set (nel primo caso è possibile procurarsi la recente ristampa della BTF dell’omonimo lavoro del 1971) si celavano proprio i liguri! Psycheground Group era semplicemente il frutto di session tra i musicisti della band nello studio romano di Gianfranco Reverberi che servivano per tastare i mezzi tecnici dello stesso, dove furono poi aggiunte delle parti create da Reverberi al piano e al vibrafono. Underground Set invece non vedeva impegnati i musicisti tutti insieme ma secondo le esigenze di Reverberi che aveva già parti pronte da essere incise (due lp registrati). “Questi dischi li abbiamo registrati tra La mia scelta dei J.Plep e Pitea, un uomo contro l’infinito dei Nuova Idea. Del disco a nome The Underground Set ero a conoscenza, di quello dei The Psycheground Group non sapevo nulla. Non sono stati pubblicizzati all’uscita perché eravamo già impegnati contrattualmente come Nuova Idea e gli album erano destinati alla musica di sottofondo per pubblicità e colonne sonore. Quindi si cercava di avere costi minimi ma massimo rendimento editoriale, tranne che per noi! Sai a quel tempo le session e il lavoro di studio ci servivano per guadagnare qualcosa e per fare esperienza che, nonostante lo “sfruttamento”, ci ha giovato molto in seguito, nella realizzazione autonoma dei dischi successivi … ”
Arriviamo al presente e all’uscita fresca di giorni (sempre per Black Widow) di Faces with no traces, con il singolo Three things presentato qualche settimana prima che si allontana dalle sonorità tipiche del prog e che fa ben sperare per un lavoro che è stato curato da Paolo insieme ad alcuni vecchi amici della Nuova Idea negli ultimi 2 anni.