giovedì 28 dicembre 2017

ECHOTIME, Side (2017)


A quattro anni di distanza dal già valido Genuine tornano gli Echotime con Side, buonissimo lavoro tra prog metal e rock opera in cui i ragazzi hanno pescato a piene mani da alcuni mostri sacri del genere come Queensryche, Dream Theater, Rush, Savatage, Royal Hunt e Kamelot. Tra brani potenti, ricchi di melodia e dialoghi che arricchiscono la storia narrata, la band ha sfornato una piccola gemma nell’affollato panorama heavy nazionale, un crossover di sonorità dove la forma canzone non viene mai persa di vista seppure suonata con ovvie doti tecniche. Nel caso specifico la forma è più quella della rock opera a dire il vero, sempre affascinante nel suo incedere e la protagonista, Lily, diviene la nostra guida lunghi i 18 momenti che caratterizzano l’album (ma tanti sono dialoghi di breve durata). Mr Valentine apre con decisione il platter, mostrando un prog metal dal piglio melodico ma deciso e la successiva The lighthouse conferma le capacità del quintetto, con il bravo Alex Cage alla voce sostenuto dalla potente sezione ritmica formata da Federico Fazi alla batteria e Stefano Antonelli al basso, nonché dal valido Andrea Anastasi alla chitarra e dalle tastiere di Filippo Martignano, che armonizza anche i passaggi più duri ed enfatizza quelli più drammatici. Sickness accentua il versante heavy prog della proposta, Hyms of glory presenta splendidi tratti sinfonici ed epici, mentre The orphanage è uno strumentale che mette in luce le qualità dei singoli musicisti. The bend of love ha un’atmosfera grandeur da musical, The river è una ballata piena di pathos, prima di Stream of life, altro episodio davvero splendido e commovente. Finale affidato a Freakshow (the), chicca posta in chiusura di un disco molto buono, compatto e ispirato dall’inizio alla fine e che potrebbe piacere non solo agli amanti del prog metal ma anche a coloro che sono abituati a suoni più morbidi. (Luigi Cattaneo)
 
The lighthouse (Video)
 

mercoledì 27 dicembre 2017

YPNOS, Beholder (2017)



Gli Ypnos nascono nel 2010 con l’intento di dare voce al diverso background che anima i cinque musicisti che prendono parte al progetto (Valentino Bosi alle tastiere, Giacomo Calabria alla batteria, Marco Govoni al basso, Davide Morisi alla chitarra e Christian Peretto alla voce). Beholder è il loro primo full lenght, un lavoro di prog metal sicuramente derivativo (Dream Theater su tutti) ma che mostra un quintetto dalle ottime capacità tecnico-compositive e una scrittura scorrevole seppure ricca di stratificazioni, l’ideale insomma per i tanti appassionati di questo stile. La Sliptrick si dimostra sempre attenta nel dare voci a certi gruppi di qualità, qui impegnati a sciorinare il decalogo del progressive, senza dimenticare qualche puntata nel filone settantiano, soprattutto quando si decelera in contesti meno aggressivi. Cambi di tempo e di atmosfera caratterizzano un po’ tutto il platter, con Tyranny suite (divisa in sette movimenti) sintesi del pensiero Ypnos e piccolo gioiello del concept sull’arco vitale dell’uomo e del suo essere succube della propria emotività in ogni frangente dell’esistenza. Le tastiere di Bosi enfatizzano i passaggi più drammatici del racconto, ricordando anche Metropolis pt.2: Scenes from a memory dei Dream Theater, la coppia ritmica si esibisce in virtuosismi congeniali al fluire dell’opera, mentre Morisi con i suoi riff e i soli caratterizza l’afflato hard dei dieci episodi, su cui emerge Peretto, vocalist vicino proprio a James LaBrie. Il disco si segnala per momenti di grande eleganza, passaggi molto tirati, ballate e atmosfere commoventi, tutti elementi tipici del genere ma che quando sono proposti e pensati in questo modo risultano convincenti ed estremamente efficaci. (Luigi Cattaneo)
 
Qui di seguito il link per ascoltare l'intero album
 

lunedì 25 dicembre 2017

POISONHEART, Till the morning light (2017)


Till the morning light è l’album d’esordio dei Poisonheart (dopo l’ep Welcome to the party), gruppo nato nella seconda metà degli anni duemila come cover band glam punk rock, il classico percorso che porta ora i bresciani con questo debut ad abbracciare territori sleaze e hard rock, con una leggera componente dark che non dispiace affatto. Ovviamente non vi sono novità in un sound consolidato nel tempo ma Fabio Perini (voce e chitarra), Andrea Gusmeri (chitarra ex Dreamhunter), Giuseppe Bertoli (basso) e Francesco Verrone (già alla batteria con i Needlework) sanno il fatto loro, hanno la giusta esperienza e la mettono al servizio di brani riusciti come l’iniziale (You make me) Rock hard, manifesto programmatico del disco che andremo ad ascoltare. Flames & Fire ha una vena heavy dark tratteggiata dalla chitarra aggressiva di Gusmeri, Anymore ha nel chorus il proprio punto di forza, sostenuto da ritmiche secche e potenti, mentre Lovehouse è un r’n’r diretto e senza troppi fronzoli, perfetto in sede live. Shadow fall continua ad omaggiare un certo suono ottantiano, risultando ancora una volta piacevole nell’amalgamare impeto e melodia. Baby strange è una bella ballata dal sapore folk, che mostra come i lombardi sappiano anche scrivere brani di tutt’altra pasta, ma la successiva Under my wings torna subito su territori heavy e non sono da meno anche Out for blood e Hellectric Loveshock, che confermano l’amore per i vari Motley Crue, Alice Cooper e Lizzy Borden. Finale affidato a Pretty in black, una gradevole conclusione per un album rock che ha il piglio del punk e del glam e che può sicuramente incuriosire chi è legato alle radici di questo stile. (Luigi Cattaneo)

Album Teaser

https://www.youtube.com/watch?v=LfyjpaKxMuo

domenica 24 dicembre 2017

PENNELLI DI VERMEER, Misantropi felici (2017)


Risultati immagini per pennelli di vermeer misantropi felici
 
I Pennelli di Vermeer (Pasquale Sorrentino alla voce e alla chitarra, Stefania Aprea alla voce e alla chitarra acustica, Michele Matto al basso e Marco Sorrentino alla batteria e alle percussioni) festeggiano il decennale della loro nascita con Misantropi felici, disco che esce a tre anni da Noianoir e che si concentra su una scrittura che guarda al cantautorato e al pop d’autore, con testi intimisti, capaci di raccontare sentimenti, paure e frenesie quotidiane. Il platter inizia con la ritmata e ironica Cerco un buco nella settimana, che mi ha ricordato qualche episodio dei Med in Itali, un pezzo tirato e amplificato dai synth di Raffaele Polimeno (buona la sua prova anche negli interventi di piano e organo lungo tutto il percorso). Si prosegue con la battistiana ballata Nel mare della sera, in cui si fondono le voci di Sorrentino e della Aprea, sottolineate dai fiati di Charles Ferris, dal violoncello di Catello Tucci e dal contrabbasso di Fulvio di Nocera (questi ultimi due li ritroveremo in parecchi momenti dell’opera). Non si vive soltanto d’amore cita il Battiato di Orizzonti perduti ma viene filtrata con l’urgenza pop di Max Gazzè, La luna tutto vede spinge sul versante folk con il lavoro pregevole di Tucci e di Nocera, mentre a metà album Ti cercherò ti troverò è una gradevole ballad che vede la calda voce di Sorrentino protagonista. Ora no! è un rock canzonatorio, un grido verso tutto ciò che non piace, un brano piacevole in cui tornano i fiati di Ferris. Anche Sono sincera è caratterizzato da un approccio più ruvido, seppure sempre nell’ambito del pop rock, ed è cantata dall’Aprea, che è presente insieme a Sorrentino nell’ottima title track, traccia delicata e piena di pathos. Ci si avvicina al finale con il riuscito folk cantautorale di  Mentre tu, che anticipa la conclusiva Ho perso il pelo, nuovamente su amabili binari pop rock. Mi preme sottolineare anche la presenza di musicisti come Pasquale Palomba e Kristian Maimone, due ottimi chitarristi che hanno riempito ulteriormente il suono in parecchie song. Misantropi felici è un album riuscito, legato all’estetica pop ma di quello raffinato, con una cura per gli arrangiamenti che finisce per fare la differenza e fa capire come la grandezza di certi musicisti non sia dettata da soli di lunghezza chilometrica ma dalla fantasia esecutiva e dalla capacità di donare eleganza e respiro a brani sì di semplice lettura ma non di facile costruzione. Un ensemble che meriterebbe molto di più a livello nazionale, perché vi sono tutte le carte in regola per piacere ad un pubblico decisamente più ampio di quello che sinora hanno conquistato. (Luigi Cattaneo)

sabato 23 dicembre 2017

ROZ VITALIS, Lavoro d'amore (2015)


È del 2015 l’ultimo disco dei Roz Vitalis, band attiva dal 2001 sotto la guida del bravissimo tastierista Ivan Rozmainsky (completano la ricca line up Vladimir Efimov e Vladimir Semenov Tyan Shansky alle chitarre, Alexey Gorshkov alla tromba, Philip Semenov alla batteria, Ruslan Kirillov al basso e Vladislav Korotkikh al flauto) e giunta prolificamente al nono album in studio. Lavoro d’amore, curioso il titolo in italiano, esce per la nostrana Lizard e ricalca lo stile romantico e sinfonico a cui il gruppo di San Pietroburgo ci ha deliziosamente abituato, concependo un platter strumentale capace di conquistare sin dai primi ascolti. L’iniziale The acknowledgement day è un ottimo biglietto da visita, segnata dal tocco delicato di Korotkikh e da quello altrettanto raffinato del leader, così come piuttosto evocativa è la title track. Il suono si ispessisce nel dark prog di Unanticipated, dove sorniona si fa strada la tromba di Gorshkov, poi sostituita dal flauto nella maggiormente radiosa Il vento ritorna, composizione con reminiscenze Jethro Tull. There are the workers of iniquity fallen mette in luce le grandi doti tecniche del settetto e lo stesso fa Need for someone else, frangente più cupo in cui fa la parte del leone il solenne suono dell’organo. Invisible animals è un altro grande momento di prog rock sinfonico, una scossa elettrica dall’andamento più frenetico che trova il suo contraltare nella melodia estatica di Every branch that beareth fruit e nella tromba della malinconica Ascension dream (Peak Version). Torna su binari più robusti What are you thinking about (divisa in due parti a formare una sorta di suite), prima del finale di Ending, un breve bozzetto elegante e cameristico. Chi ama band come Karfagen, Inner Drive e Worm Ouroboros non può lasciarsi sfuggire Lavoro d’amore, un disco pieno di spunti e intuizioni. (Luigi Cattaneo)
 
Album Teaser
 

venerdì 22 dicembre 2017

ARTEMISIA, Rito Apotropaico (2017)

Risultati immagini per artemisia rito apotropaico

Nati nel 2006, i goriziani ArtemisiA da subito si prodigano nella composizione di brani propri e arrivano in breve tempo a completare ben due dischi, Artemisia e Gocce d’assenzio. Dopo Stati alterati di coscienza e un silenzio di quattro anni, è ora la volta di Rito Apotropaico, con la line up formata da Anna Ballarin (voce), Vito Flebus (chitarra), Ivano Bello (basso) e Gabriele Gustin (batteria). L’inquietante ma bellissima cover è un bel biglietto da visita per calarci nelle atmosfere di questo breve come back (poco più di trenta minuti) formato da otto pezzi intensi e caratterizzati da un approccio stoner che non dimentica mai l’aspetto melodico e comunicativo. Rito Apotropaico è un lavoro greve, crudo, volutamente oscuro già a partire da Apotropaico, brano denso e compatto, con il Soul Circus Gospel Choir introduttivo diretto da Massimo Devitor. Delicato il tema di Il giardino violato, l’argomento pedofilia viene trattato attraverso un suono che denota forza e potenza, mentre con Tavola antica ci si perde nel mistero dell’aldilà sempre nel segno di una musicalità energica e poderosa. La matrice stoner prevale nella rocciosa Iside, seppure è presente nuovamente il coro di Devitor, prima della sorpresa acustica di La guida, un momento inaspettato dopo tanta elettricità. La preda torna su versanti saturi e vigorosi, Regina guerriera è improntata sulla figura di Artemisia di Alicarnasso e presenta qualche sfumatura progressive, mentre il finale di Senza scampo è una drammatica song sull’orrore dell’Olocausto e vede impegnato Carlo Marzaroli al violino, chicca conclusiva di un ritorno assolutamente positivo. (Luigi Cattaneo)
 
Senza scampo (Video)
 

martedì 19 dicembre 2017

habelard2, Hustle & Bustle (2017)


Hustle & Bustle è il quarto disco del prolifico Sergio Caleca e del suo progetto habelard2, che solo qualche mese fa ci aveva deliziato con Maybe, l’album per ora più convincente di questo suo percorso da solista (il compositore è anche tastierista degli Ad Maiora). Rispetto al lavoro precedente, che era stato registrato insieme ad altri ottimi musicisti, Caleca ripropone lo schema di Qwerty e Il ritorno del gallo cedrone, episodi in cui si era destreggiato come one man band suonando tutti gli strumenti. Anche in questo come back il milanese forgia un’ora di prog strumentale di buona fattura in cui emerge il suo amore per Claudio Simonetti, P.F.M., Keith Emerson, i Genesis e la scena di Canterbury, influenze che traspaiono con estro e una certa raffinatezza estetica, donando all’opera un risultato complessivo godibile e che mostra la preparazione dell’autore. Si parte con Frère Jacques, brano in cui viene citato il canone francese Fra Martino Campanaro, abbellito dalle tastiere che riproducono sax, tromba e organo. Dolce è caratterizzata da una ritmica di basso su cui Caleca libra con le sue tastiere, così come non dissimile è il lavoro su Giada, in cui appare anche il suono del flauto. Progressive sinfonico di eccellenza in Alice, prima della lunga e ricercata Folk e Martello e di Tragico nr.2 in cui riappare la chitarra elettrica. Celtic dream, lo dice il titolo, è un omaggio all’Irlanda dettato dalle sonorità tipiche di quelle terre, qui riprodotti con le immancabili tastiere. DeboleFortePiano vede invece il nobile strumento di 88 tasti protagonista, 22 corde ha nella chitarra acustica l’elemento sorpresa tenuto sinora nascosto, mentre Cinc ghei pusè ma rus è più vicina al jazz rock e si mantiene su buoni livelli. Gli anni ’70 si palesano ancora con più forza in Seventies e non sono da meno le escursioni prog della title track e il nobile sinfonismo di Finalino, che chiude questo ritorno stimolante e ancora una volta appetibile dagli amanti di certi suoni. (Luigi Cattaneo)
 
Qui di seguito il link per ascoltare e acquistare l'album
 

sabato 16 dicembre 2017

MONNALISA, In principio (2017)


La band si forma nel 2009 con il nome di Monnalisa Smile, monicker che viene accorciato in quello attuale dopo aver assemblato omaggi ad alcuni giganti del rock come Deep Purple, Led Zeppelin, Queen e Rainbow, gruppi da cui hanno attinto anche in fase di songwriting. Fonti d’ispirazione a cui hanno aggiunto il loro amore per il progressive rock e l’heavy di Porcupine Tree, Rush, Dream Theater e King Crimson, mantenendo però forte l’identità italiana decidendo di cantare nella nostra lingua, una scelta stilistica che mi ha ricordato i Diamante e i Bornidol. In principio è quindi il loro primo full lenght, registrato negli Opal Arts Studio di Fabio Serra (leader dei Rosenkreutz) e mostra una band con idee già chiare e una scrittura che abbina heavy, prog e una grossa dose di melodia, con chorus immediati e di grande effetto che completano un quadro decisamente gradevole. Edoardo Pavoni (batteria), Manuele Pavoni (basso), Filippo Romeo (chitarra), Giovanni Olivieri (voce, tastiere e chitarra acustica) firmano con In principio un lavoro dove emergono tutte le loro influenze, già a partire dall’iniziale Specchio, un pezzo vibrante e con un break centrale strumentale di chiara ispirazione hard prog davvero avvincente. Il segreto dell’alchimista continua sulla stessa falsariga della precedente, con l’autorità heavy dei riff di Romeo e melodie progressive dettate soprattutto dalle tastiere di Olivieri, bravo interprete anche dal punto di vista vocale. Catene invisibili pone l’accento sul versante hard rock, con le tastiere che creano tappeti su cui la band non concede un attimo di respiro, mostrando di saperci fare anche quando c’è da aumentare potenza e aggressività. I quasi sette minuti di Infinite possibilità sono forse l’apice progressivo dei veronesi, che costruiscono un bozzetto meno immediato ma decisamente valido, soprattutto per certi ricami raffinati e curati. Ottima la strumentale Oltre, così come la lunga Viaggio di un sognatore, che con le due song precedenti va a formare un trittico progressivo di tutto rispetto. Chiude Ricordi, episodio dai tratti più tipicamente rock e piacevole conclusione di un disco fresco e molto dinamico. (Luigi Cattaneo)
 
Oltre (Video)
 

venerdì 15 dicembre 2017

BASTA! , Elemento Antropico (2017)


Primo full lenght per i Basta! dopo il validissimo ep Oggetto di studio del 2012, un percorso che prosegue laddove si era fermato, all’insegna del rock progressivo strumentale (fanno eccezione alcune parti del concept narrate dalla voce di Riccardo Sati), scelta che avevano abbracciato anche nel precedente lavoro e che risulta ancora una volta congeniale alla singolare formazione (Damiano Bondi alla diamonica e alle tastiere, Roberto Molisse alla batteria e alle percussioni, Saverio Sisti alla chitarra, Giacomo Soldani al basso e Andrea Tinacci al clarinetto e al sax). I toscani fanno ovviamente dell’interplay tra diamonica, tastiere e fiati un punto di forza ma è l’insieme ad essere convincente, capace di oscillare tra i nomi tutelari di un certo italico prog settantiano e istanze di hard a stelle e strisce. Tra ritmiche dispari e fraseggi elettrici, i Basta! guardano indietro tenendo ben a mente il presente del genere, forti delle loro doti comunicative e di una tecnica di base non indifferente (basti ascoltare Il muro di Ritmini Strambetty o Zirkus). Capaci di essere delicati ma decisi, mostrano come l’unità di intenti sia un pregio imprescindibile, balzando lungo decenni di rock progressivo con la classe e la sicurezza dei veterani e tutto ciò traspare in episodi notevoli come Entro l’antro e L’uomo cannone. Tutto l’album, pur nella sua particolarità, è molto fluido, sia quando spinge il piede sull’acceleratore sposando ritmiche hard (l’interessante verve di Schiacciasassi), sia quando indugia in momenti di passaggio (Intro, con Fabio Zuffanti alla voce), confermando quanto di buono e interessante era emerso nel precedente platter. Rispetto al recente passato l’approccio appare meno folle, più ragionato e consapevole, elementi che hanno determinato un disco maturo e che mette in luce un potenziale ulteriore, segno che la band ha tutte le carte in regola per rimanere a lungo nel panorama prog attuale. (Luigi Cattaneo)
 
Il muro di Ritmini Strambetty (Video)
 
 
 

lunedì 11 dicembre 2017

LIQUID SHADES, Reaching for freedom (2017)


Nati circa dieci anni fa, i Liquid Shades si sono sempre proposti come una band devota al rock progressivo (italiano e non) dei settanta, cercando con rispetto e laddove possibile di ampliare il loro spettro sonoro. Dopo un silenzio di tre anni (risale al 2014 il precedente ep), eccoli con il primo full lenght, Reaching for freedom, esordio sulla lunga distanza che non fa altro che confermare il buono stato di salute del prog italiano (seppure in questo caso cantato quasi sempre in inglese). Marco Gemmetto (chitarra e voce), Diego Insalaco (chitarra e tromba), Lorenzo Checchinato (sax alto e corno francese), Emanuele Vassalli (piano, organo e synth), Guglielmo Campi (batteria), Matteo Tosi (voce e basso) e Donato Di Lucchio (flauto) hanno creato un album lontano da questi tempi schizzati che ogni cosa ingoiano, dove tutto viene assaporato per un attimo, esaltato e poi dimenticato per far posto a qualche altro fenomeno da intrattenimento (o da baraccone). Qui invece c’è studio, c’è la capacità di articolare ma con anima e di creare un’opera che rispecchia certi valori, che va ascoltata con cura, senza fretta … Outro: A new beginning è la partenza perfetta per guidarci tra le atmosfere cangianti del platter, con richiami ai Pink Floyd e significativi intarsi progressivi che la band conosce ed esplica egregiamente. La title track mostra come sia importante per la band il lavoro d’equipe, raffinato ed elegante, mentre Wandering in the unconscious è una sorta di suite divisa in due parti e va a tratteggiare le varie influenze dei ferraresi, mostrando però personalità e grande attenzione per una scrittura ricca di elementi e piccole finezze esecutive. Fade to horizon è un altro ottimo pezzo, accattivante e capace di oscillare tra aromi classici e spinte rock, To glimpse the oneiric shades è un viaggio fantastico nella memoria del progressive mondiale, una song in cui i sette confermano di essere musicisti davvero di spessore. A dream of illusion si avvicina di più alla forma della ballata, peraltro molto gradevole, prima del fragoroso finale di Tempo di andare, unico brano cantato in italiano e riuscito mix tra il lirismo della P.F.M., i crescendo del Banco del Mutuo Soccorso e la forza d’insieme che ha contraddistinto gruppi più contemporanei come Periferia del Mondo o i recenti Macroscream. Reaching for freedom è un lavoro rilevante, carico di soluzioni fantasiose e pieno di idee, una summa del percorso sin qui svolto che merita la giusta attenzione da parte di pubblico e critica. Per maggiori informazioni e per acquistare il disco (cosa ovviamente consigliata!) potete visitare il sito www.liquidshades.it (Luigi Cattaneo)
 
Reaching for freedom (Video)
 

sabato 9 dicembre 2017

VICTIM OF ILLUSION, Invisible light (2017)


Nati nel 2010 dalla volontà di Piero Giaccone (chitarra e synth) e Paolo Gurlino (voce), i Victim of illusion non hanno mai nascosto influenze importanti come Porcupine Tree e Riverside, ponendosi in quella corrente progressiva in cui rock e metal vanno a braccetto senza problemi. Completa la line up Luca Imerito (basso), a cui va aggiunta la collaborazione per questo nuovo disco di Michele Santoleri (batteria), platter che si aggiunge all’ep What senses blow away (2011) e Oxideyes (2014). Invisible light è un prodotto dal taglio internazionale, accomunabile a quello di altre band italiane come Nosound e Methodica, anche loro vicine per stile alle trame complesse e cariche di creatività dei torinesi, segno tangibile che l’Italia ha oramai appreso e interiorizzato anche un certo progressive di matrice heavy e la lezione dei vari Dream Theater, Fates Warning e Queensryche, nonché di Tool e Porcupine Tree. L’album è molto raffinato, anche nei momenti più pesanti si denotano classe e cura per l’arrangiamento, con una buona dose di attenzione per la forma canzone, sempre ispirata e molto melodica. Difficile trovare qualche momento di stanca negli otto pezzi presenti, che pur non brillando per originalità si contraddistinguono per eleganza, tecnica e un gusto dark che sottolinea passaggi drammatici e pieni di anima. Il substrato hard è evidente ma viene amalgamato da strutture che lasciano spazio a fraseggi tenui e soavi e da un interplay che risalta il gioco d’insieme. Difatti lo splendido lavoro di Giaccone è rifinito e accompagnato da una sezione ritmica affidabile, su cui è libero di giostrare Gurlino, perfetto cantore di un disco di cui bisognerebbe essere patriotticamente orgogliosi. (Luigi Cattaneo)
 
Invisible light (Official teaser)
 

domenica 3 dicembre 2017

MALCLANGO, Malclango (2017)


La combinazione di tre elementi che provengono da altrettante oscure band capitoline (Juggernaut, Donkey Breeder e Inferno Sci-Fi Grind ‘n’ Roll) ha dato vita a questa creatura formata da due bassisti e un batterista, i Malclango. La particolare formazione triangolare ricorda la propensione all’impatto di altri gruppi come LVTVM, Shellac o Salmagündi, con l’aggiunta della pesantezza di un certo math destrutturato e l’incombenza plumbea delle mandi madri. Un prodotto del genere esce per la Subsound Records, etichetta regina di un sound fosco e greve, che sa essere ponderoso ma sempre comunicativo pur stando lontano da stereotipi o facili ruffianerie. Nel caso specifico il trio suona con innata potenza, specifica coordinate doomy avvolgenti e carica stoner coinvolgente, tutte caratteristiche che ci accompagnano lungo 30 minuti senza sosta alcuna. Le atmosfere sulfuree del plot si alimentano ovviamente di ritmiche complesse, spezzate da una voce narrante inquieta che crea un filo tra i vari episodi, liberi di vagare tra asperità noise e sperimentazioni psichedeliche. Un trip surreale che nasce dalla voglia di suonare senza seguire una linea di demarcazione, alla ricerca di sorprese e sbalordimenti trasversali. Un trio del genere fa ovviamente del groove una delle caratteristiche principali (se non la principale), elemento che sottolinea brani importanti come Patatrac o Nimbus, che non faticheranno ad entrare nei cuori di chi ama band come Morkobot e OvO. (Luigi Cattaneo)
 
Nimbus (Video)
 

sabato 2 dicembre 2017

SALMAGUNDI, Life of Braen (2017)


Definirlo il progetto progressive di Enzo Zeder, bassista dei Kotiomkin e degli Egon Swharz, è riduttivo. Chi conosce l’autore conosce anche la sua trasversalità e l’amore per certe strutture oblique, diretta conseguenza sì del suo interesse per il prog (ma quello inconfondibile dei Cardiacs), abbinato però alla voglia di dire qualcosa cercando di allontanarsi dai clichè sinfonici o jazz rock. E allora ecco qua un quartetto formato da due solidi bassi (Enzo P. Zeder e Francesco Pacifici), un batterista (Mattia Maiorani) e un eccentrico cantante (Franco Serrini, impegnato anche ai sintetizzatori), che con Life of braen (stampato in edizione limitata a 222 copie in digipak serigrafato e numerato a mano) mi fanno pensare più che altro ad una new wave dissacrante ispirata ai The Residents, così come agli Earth di Dylan Carlson e allo stoner doom dei gruppi madre di Zeder, sempre ottimo interprete di sonorità spesse e cupe. Il nuovo progetto si allontana ancora di più dagli standard, proponendo un crossover di influenze per nulla canonico, che finisce per dare vita ad un esordio dai tratti meno definiti ma estremamente curioso. La furia ritmica non può che rimandare anche ai Primus e ai Colonel Claypool’s Bucket of Bernie Brains e a certo post punk ottantiano, condito da un alone melodico che dona respiro a brani che rischierebbero di mostrare solo l’ala più potente del platter. Sullo sfondo fanno capolino anche le note dolenti di Tom Waits e di Nick Cave e dei suoi stralunati Grinderman, personaggi che completano un quadro di non facile assimilazione che può essere apprezzato solo dopo diversi ascolti, quando si coglie il senso dietro un disco volutamente schizoide e libero, nato da un quartetto pericolosamente “sconvolto”. (Luigi Cattaneo)
 
Viridian face with a crimson tongue (Video)
 

CONCERTI DEL MESE, Dicembre 2017

Sabato 2
·C. Simonetti's Goblin a Ferrara
·PFM a Varese
·Il Segno del Comando a Scandicci (FI)
·Sezione Frenante/Quanah Parker/Opus Avantra a S. Donà di Piave (VE)
·Thank You Scientist+Profusion a Firenze
·Dropshard a Monza
·UT New Trolls a S. Stino di Livenza (VE)
·Napoli Centrale a Sorrento (NA)
·Lethe a Paderno Dugnano (MI)
·PoiL a Bologna

Domenica 3
·C. Simonetti's Goblin a S. Donà (VE)
·Thank You Scientist a Brescia
·Napoli Centrale a Sorrento (NA)
·PoiL ad Ancona
·Kalisantrope a Rescaldina (MI)

Giovedì 7
·Lincoln Quartet a Sacile (PN)
·Ufomammut a Ravenna

Venerdì 8
·C.Simonetti Goblin a Frattamaggiore (NA)
·The Trip a Torino
·Monkey Diet a Bologna
·Ufomammut a Trieste
·The Coastliners a Roma
·Aldo Tagliapietra a Murano (VE)

Sabato 9
·Lincoln Quartet a Lugagnano (VR)
·The Watch a Veruno (NO)
·Locanda Delle Fate ad Asti
·Ufomammut a Brescia
·Martin Barre a Mendrisio (Svizzera)
·L'Ira del Baccano a Roma

Domenica 10
·Mad Fellaz a S. Zenone d/Ezzelini (TV)

Martedì 12
·Napoli Centrale a Napoli

Mercoledì 13
·Syncage a Verona

Giovedì 14
·The Winstons a Bologna

Venerdì 15
·Dusk e-B@nd a Rimini
·Lachesis a Cassano d'Adda (MI)


Sabato 16
·Camembert+Diode alla Casa di Alex di Milano
·Arturo Stàlteri a Torino
·Unreal City + Kalisantrope a Rozzano (MI)
·Lo Zoo di Berlino a Latina
·Tazebao a Vignola (MO)
·Real Dream a Genova
·Glincolti a Santi Angeli (TV)
·Aliante+Quarto Vuoto alla Lovat di Villorba (TV)
·Le Orme a Pordenone
·Aldo Tagliapietra a Marghera (VE)
·Dark Ages a Brescia
·Tacita Intesa a Bibbiena (AR)

Domenica 17
·Jus Primae Noctis a Genova
·Flower Flesh a Savona

Martedì 19
·Höstsonaten a Chiavari (GE)

Mercoledì 20
·Glincolti a Savignano sul Rubicone (FC)
·Malibran a Belpasso (CT)

Sabato 23
·Aldo Tagliapietra a Lugagnano (VR)
·Senza Nome a Marino (Roma)
·FixForb a Castenedolo (BS)

Martedì 26
·Malus Antler a S. Zenone d/Ezzelini (TV)

Mercoledì 27
·The Watch a Lugagnano (VR)

Giovedì 28
·The Squonk a Talsano (TA)

Venerdì 29
·Biglietto per l'Inferno a Lugagnano (VR)
·PFM a Bari
·Supper's Ready a Laives (BZ)
·Avalon Legend a Orbassano (TO)

Sabato 30
·Monkey Diet a Bologna
·PFM a Castrovillari (CS)
·Ozone Park a Sestu (CA)

lunedì 27 novembre 2017

STRUTTURA & FORMA, One of us (2017)


Gli Struttura & Forma hanno una vicenda analoga a quella di diverse band italiane dei ’70, che per svariati motivi non sono riuscite a lasciare incisioni discografiche della loro attività e finiscono per diventare con gli anni un bagliore nella mente di qualche appassionato che magari aveva assistito ad uno dei concerti dell’epoca. Franco Frassinetti (chitarra) e Giacomo Caliolo (chitarra), gli unici due membri originari della prima formazione, accompagnati da Marco Porritiello (batteria), Claudio Sisto (voce) e Stefano Gatti (basso) e dall’ospite Beppe Crovella degli Arti e Mestieri al mellotron, riescono solo ora a pubblicare One of us, un disco vintage e con virate hard dirette e potenti. L’epico strumentale Worms, registrato nel 1972, è un grandioso inizio ma non è da meno Symphony, con Crovella sempre grandissimo mattatore nei suoi passaggi e una scrittura complessiva raffinata e da subito godibile. Dopo la piacevole rivisitazione di Lucky man (che ci fa comprendere come gli Emerson Lake & Palmer e tutto il prog inglese siano stati di grande importanza per l’ensemble) arriva il primo vagito heavy prog con l’interessante Kepler. Se la title track va a lambire con gusto territori fusion, i due minuti strumentali di Kyoko’s groove sono tirati e di grande impatto. Indios dream conferma la grande capacità degli Struttura & Forma di proporre idee in linea con il progressive senza eccedere in sterili elucubrazioni virtuosistiche e sulla stessa lunghezza d’onda vi è Fasting soul, immediata e di notevole urto rock. Amsterdam è forse il momento meno riuscito di tutto il disco ma è solo un frangente, perché Acoustic waves è un delicato strumentale e Il digiuno dell’anima è un bel finale, unica traccia in italiano e variante gradevolissima del percorso intrapreso lungo il platter. Dopo Quanah Parker, Spettri e Posto Blocco 19 (giusto per citare qualche band), che hanno trovato la giusta consacrazione in anni recenti, ecco un ulteriore riprova della qualità del prog italiano e di come ci siano ancora piccole gemme da scoprire. L’augurio, scontato, è che i liguri non debbano attendere altri 45 anni per dare un nuovo segnale di vita … (Luigi Cattaneo)
 
Symphony (Video)
 

domenica 26 novembre 2017

TREWA, Beware the selvadic (2016)


Luca Briccola è uno di quei personaggi dell’underground italico che spesso raccoglie meno di quanto semina. Mogador, Trewa, Sarastro Blake, gruppi autori di ottimi album troppe volte conosciuti più dagli addetti ai lavori che purtroppo dagli appassionati. Sperando non sia il caso anche di questo Beware the selvadic, terzo disco targato Trewa (Luca Briccola alla chitarra, alle tastiere, al flauto, alla fisarmonica, al banjo e alle percussioni, Lucia Amelia Emmanueli alla voce, al flauto e al clarinetto, Claudio Galetti alla voce, Joseph Galvan al basso, Filippo Pedretti al violino e al glockenspiel e Mirko Soncini alla batteria) e contaminato da maggiori influenze heavy, a cui vanno affiancate le solite componenti folk e progressive (Pentangle, Jethro Tull, Opeth). Permangono quindi le sonorità tipiche dei comaschi, a cui però vengono aggiunte sfuriate hard che finiscono per rendere la proposta maggiormente greve e in alcune parti accostabile agli Eluveite. Si parte con Skaldic kin (ispirata alla medievale Cantiga n ° 166), un crossover ben riuscito di folk, dark e metal abbellito dal violoncello di Irina Solinas. A seguire Where the hawks wait ready (che invece si basa sul tradizionale irlandese Sweeney’s buttermilk), decisamente heavy seppure fanno capolino strumenti tradizionali come il whistles di Massimo Volontè e il bodhran di Riccardo Tabbì. Si vira verso il folk con la ballata The soldier’s scars, mentre il country di Cold frostly morning viene utilizzato per Awakening, brano dove troviamo anche i consueti fraseggi prog metal del sestetto. Pure The woodwose si avvale di tale dicotomia, con la struttura folk che viene irrobustita da ritmiche accelerate e grandiosi riff chitarristici, un pezzo epico tra i migliori del platter. Se White sails continua sulla stessa falsariga, Sublime selvadic guarda al medioevo catalano (riprendendo il tema Stella splendens) con le importanti partecipazioni di Tabbì, la voce di Richard Allen e l’arpa di Rossana Monico. The quiet lady segna il ritorno della Solinas e del folk marcato Trewa, così come Olaf the stoner si basa invece sul medievale norvegese Herr Olof e veleggia in territori prog folk metal. In A shimmering sword vi è di nuovo il bodhran di Tabbì ma soprattutto la cornamusa di Melissa Milani, che ovviamente finisce per dare quel profumo di Scozia alla composizione. Clayton riprende il klezmer Odessa Bulgarish contornandolo di sviluppi hard, prima del finale country di Horizons, suggello di una prova curiosa, estremamente eterogenea e di grande cultura. (Luigi Cattaneo)
 
The woodwose (Video)
 

venerdì 24 novembre 2017

TRAUMA FORWARD, Scars (2017)



Scars è il primo album dei toscani Trauma Forward, duo composto da Jacopo Bucciantini (batteria e voce) e Davide Lucioli (tastiere e voce) e coadiuvati da Francesco Zuppello (chitarra) e Michael De Palma (basso), un concept surreale fatto di immagini e suoni onirici e sperimentali, che parte dai famosi tagli di Fontana per raccontare di squarci e patimenti interiori, dove tutto risulta posticcio e ingannevole (a partire dall’interessante artwork del disco). Il platter è fatto di spunti acustici, schegge elettroniche e dark prog e già l’iniziale Into the labyrinth, con il suo tetro organo introduttivo è esemplificativa di un percorso in cui troviamo gli Jacula, i Goblin e un certo post rock impalpabile e sfuggente. Più soffusa la partenza di Red shadows, con l’interplay tra tastiere e chitarra che lungo il brano ricorda anche qualcosa dei Piano Room, prima del finale narrato con mestizia da Lucioli. In Sundown living puppet il protagonista è di nuovo Lucioli con le sue tastiere, sostenute dalle ritmiche di Bucciantini, mentre nella seguente Cloud in a bottle il quartetto crea un affascinante bozzetto astrale. Sometimes I feel vede di nuovo il duo all’opera, lasciando libero sfogo a fantasiose escursioni elettrodark, Waiting’s four Seasons è invece proiettata verso suoni liquidi, vellutati, quasi fragili nella loro essenza. La title track è un’alternanza di passaggi aggressivi e armoniosi, un contrasto tra elementi che poi è alla base del plot generato dai Trauma Forward e che trova conferma nelle trame acustiche di Sense of consciousness, vicina ad alcuni episodi degli eterei neofolk Corde Oblique. Foggy hills ritorna sul versante elettronico ma risulta più banale rispetto agli episodi precedenti, maggiormente interessante è invece la malsana indole di Behind the line, un heavy dark a tinte gotiche. A rusty piece of mind nelle parti elettroniche si avvicina all’EBM, per poi variare il contesto con l’agire della chitarra di Zuppello, prima della conclusiva Woman with parasol che finisce per fare il verso ad alcuni suoni tipicamente orientali! C’è una discreta varietà in questo debut, una costante ricerca sulle dinamiche che denota voglia di esplorare ma anche la capacità di non esagerare, di riuscire a comunicare qualcosa pur non utilizzando un linguaggio ortodosso, segnali tutt’altro che secondari per una band ancora giovane e con margini di crescita. (Luigi Cattaneo)
 
Into the labyrinth (Video)
 


 
 

 
 

mercoledì 22 novembre 2017

MACHINE MASS, Machine Mass plays Hendrix (2017)


Celebrare alcuni personaggi chiave del novecento musicale e dell’immaginario collettivo come Pink Floyd, Zappa e in questo caso Jimi Hendrix presuppone avere quantomeno una discreta dose di follia, quella che ha spinto i Machine Mass a tributare il genio di Seattle. Ci vuole anche talento ovviamente ma di quello sono indubbiamente forniti Antoine Guenet (tastiere, synth e piano acustico) dei Wrong Object e degli Univers Zero, Michelle Delville (chitarra), anche lui proveniente dai Wrong Object e presente anche nel sestetto di Alex Maguire e nei douBt e Tony Bianco (batteria e percussioni), elemento che ha suonato con Elton Dean e Dave Liebman. Il trio è una combinazione vincente di psichedelia, rock progressivo settantiano e jazz canterburiano, elementi che vengono instillati in brani immortali come Purple Haze, Spanish Castle Magic o Fire, di cui rimane l’archetipo oltre che alcune dinamiche originali. La band non segue giustamente il canovaccio hendrixiano ma vola libera, fresca, premia l’istinto con passaggi al limite del free, suggella gli arrangiamenti con vibranti tessiture di synth e tastiere che completano una revisione in cui convive lo spirito di Jimi con l’autonomia di interpreti esperti e sicuri. Un’operazione rischiosa ma affascinante, proprio per la ferrea volontà di limitare convenzioni e inibire steccati (come da tradizione Moonjune Records), di non muoversi lungo una sola linea retta ma di inerpicarsi in un labirinto di prospettive, ripensando il percorso di Hendrix con acume e rispetto. Machine Mass plays Hendrix è un grande omaggio, brillante e avventuroso, consigliato agli estimatori della sua musica, che è sempre stata senza catene e schemi precostruiti. (Luigi Cattaneo)
 
You got me floatin (Video)
 

domenica 19 novembre 2017

ALESSIO SECONDINI MORELLI'S, Hyper-Urania (2017)


Alessio Secondini Morelli, già chitarrista con gli Anno Mundi e con Freddy e The Kruegers, presenta un nuovo progetto musicale, Hyper-Urania, band che affonda le proprie radici con fierezza nel glorioso Heavy Metal ottantiano, quello di Queensryche, Crimson Glory, Iron Maiden e Saxon, quindi una miscela di potenza e melodia intramontabile anche per le nuove generazioni di metalhead. L’ep vede la presenza di diversi musicisti del folto underground romano (il mini è stato realizzato negli studi Bottega del suono di Roma), tutti molto affini alle idee di Morelli, che ha composto brani immediati, passionali, epici e pieni di sano vigore heavy. Si parte subito forte con la classicità di Arkam, un pezzo che premia la natura istintuale del progetto, vigorosa e col giusto appeal anni ’80, quello del metal americano fatto di soli e chorus decisi, qui esaltati dalla voce di Federica Garenna (Sailing to Nowhere, She Devil) e da una grintosa sezione ritmica (Emiliano Eme Laglia al basso e Daniele Zangara alla batteria, colonne su cui poggiano quasi tutte le tracce). Lord of the flies è un heavy rock piuttosto tirato che guarda ancora agli ’80 e vede la presenza del bravo Freddy Rising (Acting Out, Martiria, Bible Black) alla voce, mentre il breve strumentale Fuga in mi minore del Canto delle Valchirie anticipa Scarlet Queen, ripresa dal primo disco degli Anno Mundi e decisamente NWOBHM (con di nuovo Freddy alla voce). Chiudono l’ep la cover dei Blue Oyster Cult Veteran of the psichi wars in cui troviamo ben tre cantanti, ossia Freddy, la Garenna e Francesco Lattes (New Disorder, The Falls) e l’outro strumentale Steven Shark basata sul tapping. Alessio non ha intenzione di inventare nulla e quello che fa è frutto di una sincera passione, la stessa che lo ha portato ad un primo passo sicuramente gradevole e che getta le basi per qualcosa di più corposo. (Luigi Cattaneo)
 
Lord of the flies (Video)
 

sabato 18 novembre 2017

QUARTO VUOTO, Illusioni (2017)


Primo full lenght per i Quarto Vuoto, che dopo la dipartita del cantante e violinista Federico Lorenzon scelgono di pubblicare un album interamente strumentale e vicino alla psichedelia floydiana e al progressive dei King Crimson. I trevigiani concepiscono con Illusioni un lavoro molto strutturato, con passaggi atmosferici, dark e qualche spunto avanguardistico che ben si amalgama con certi sviluppi sonori. Sontuosa la vena psichedelica di Nei colori del buio, con Mattia Scomparin (tastiere e piano) protagonista nel creare suggestivi tappeti che finiscono per imparentarsi con l’ambient ricercato di Brian Eno e il tanto discusso The endless river dei Pink Floyd. Coscienza sopita mette in mostra la coppia ritmica formata da Edoardo Ceron (basso) e Nicola D’amico (batteria) e il dinamismo di Luca Volonnino (chitarra), per un brano che sintetizza l’amore per il progressive e la psichedelica, mentre Impasse è uno dei momenti migliori, con Giulio Dalla Mora al sax tenore che ben si cala nelle dinamiche dei Quarto Vuoto, qui forse all’apice della loro pur breve carriera. Difatti la composizione è una lunga e articolata cavalcata sospinta da pulsioni dark prog, vagiti space e Kraut in odore di Cluster e sussulti psichedelici in cui è importante il lavoro d’insieme. A dire il vero anche la seguente Apofis si muove sulla stessa scia (presenza di Dalla Mora compresa), dove forse viene accentuata la componente rock del quartetto, prima di Due ° Io, un bel incontro/scontro tra forza e delicati spunti psichedelici e la conclusiva e raffinata Tornerò, impreziosita dal violino acustico di Mauro Spinazzè, indubbiamente un bellissimo finale per un lavoro di grande pregio e che celebra la crescita esponenziale della band veneta, molto più interessanti e affascinanti rispetto al pur piacevole ep d’esodio del 2014. (Luigi Cattaneo)
 
Apofis (Video)
 

giovedì 16 novembre 2017

INARMONICS, A thing of beauty (2017)

Risultati immagini per inarmonics

A thing of beauty è il debut degli Inarmonics, un crossover intelligente tra influenze black, indie rock e fraseggi strumentali che puntano molto su groove e impatto. Registrato interamente in presa diretta come un disco del passato, l’album contiene più anime, una contaminazione tra stili che risulta da subito gradevole e cerca di non limitare la voglia di toccare generi differenti. Anche la voce di Gianluca Gabrielli riesce a spaziare seguendo il mood delle varie tracce, apparendo più soul quando il contesto lo esige o volutamente drammatica nelle parti maggiormente tirate o oscure, merito anche di bravi musicisti come Massimiliano Manocchia (chitarra), Giampaolo Simonini (basso) e Manuel Prota (batteria). L’iniziale Disma mostra subito le sfumature del loro sound, con qualche spunto prog che non dispiace affatto, mentre la title track ha un gusto decisamente più vicino alla black music, con elevati dosi di appeal che potrebbero far funzionare il pezzo anche nelle radio nazionali. Bello il tribalismo di In the park, nervoso e turbolento, aspetto che ci conduce al dinamismo di Funkarabian Scat, uno strumentale che unisce il funky rock e il Medio Oriente. Tale splendore lascia il posto a History, più indie ma comunque convincente, ma è solo un passaggio, perché Farabutto è un nuovo favoloso e vibrante strumentale che mette in mostra doti tecniche e un notevole interplay tra il quartetto. Toni da ballata con Gone too fast, prima del finale di More wine, carico di buone vibrazioni (in alcuni momenti mi ha fatto pensare al periodo più ispirato di Ben Harper) e ottima conclusione di un disco volutamente senza un’unica direzione, capace di lambire più ambiti grazie a idee e coraggio. (Luigi Cattaneo)

Di seguito il link per ascoltare l'album per intero https://itunes.apple.com/it/album/a-thing-of-beauty/1227674427?i=1227675345

lunedì 13 novembre 2017

DARK AVENGER, The Beloved Bones : Hell (2017)


Pregevole ritorno per i brasiliani Dark Avenger, un gruppo che con gli anni si è molto migliorato e ha creato una base di fan anche qui in Italia che non avranno difficoltà nel riconoscere The beloved bones : Hell come uno dei dischi più riusciti dell’act carioca. Il nuovo platter conferma ovviamente la carica heavy insita nei verdeoro, con squillanti trame epic e fraseggi che finiscono per lambire il thrash metal tecnico, un percorso forgiato da aggressività e pathos. I Dark Avenger hanno dalla loro un’attenzione immensa per la melodia, che diviene elemento focale pure nei frangenti più duri, segno delle raffinate doti di songwriting sempre più sviluppate dell’ensemble. Il mood inquieto e malinconico con cui sono stati costruiti parecchi brani si sposa con la potenza della coppia di chitarristi Glauber Oliveira e Hugo Santiago e una sezione ritmica corposa e precisa formata dal basso di Gustavo Magalhaes e dalla batteria di Anderson Soares (segnalato però come musicista esterno alla band), musicisti egregi su cui si muove sontuosamente la voce di Mario Linhares. Si parte in quarta con The beloved bones, che si apre con un ipnotico intro di violino di Mayline Violinist, che ben presto viene spazzato via da un tremendo riff thrash metal che indirizza la trama verso lidi cari ai Nevermore, con frangenti davvero molto violenti. Smile back to me conferma l’aurea cupa e diabolica e la pesantezza del thrash, condita però da sfumature epiche coinvolgenti. Non dispiace nemmeno il grandeur gotico di King for a moment in cui vengono delineati alcuni topoi del gruppo, che oscilla tra epic, sfuriate heavy e sensibilità melodica. This loathsome carcass è ancora fosca e greve ma lascia intravedere uno spiraglio di luce, qui tradotto per mezzo di note che riescono a sedurre chi ascolta. È solo un attimo, perché i brasiliani non hanno nessuna intenzione di porre freno al loro spirito bellico e i riff sostenuti di Parasite sono lì a dimostrarlo. Breaking up again inizia come una delicata e inusuale ballata, per poi aggredire con ferocia l’inerme spettatore di questa furia (in)controllata. Un po’ di prog irrompe in Empowerment, soprattutto per una certa enfasi, la maestosa melodia portante e una riuscita parte strumentale, mentre Nihil mind appare più diretta e immediata, pur essendo tutt’altro che scontata. Purple letter non cambia registro ma si arricchisce della presenza di Marcella Dourado alla voce, un duetto godibile e sinuoso, prima di ben due ballate, Sola mors liberat, con il piano di Vinicius Maluly e la bonus track When shadows falls, poste insieme a concludere un disco ricchissimo di idee e vera manna per tutti gli amanti dell’hard & heavy. (Luigi Cattaneo)
 
The beloved bones (Video)
 

sabato 11 novembre 2017

DANTE ROBERTO, The circle (2017)


Esordio discografico per Dante Roberto, docente presso il Conservatorio Paisiello di Taranto e con una cultura classica di notevole spessore, che qui riversa in un album progressive a tutto tondo dove le sue tastiere sono ben sostenute da Salvatore Amati al basso, Alessandro Napolitano alla batteria e da un trio di chitarre formato da Luca Nappo, Salvatore Russo e Alex Milella, che Dante utilizza singolarmente in base al mood del pezzo. The circle è un disco che gli amanti di un certo prog, vintage e settantiano, non possono lasciarsi sfuggire, un concept strumentale che lega quella mitica stagione di New Trolls e Le Orme con quella attuale di Alex Carpani o The Rome Pro(G)ject, il tutto suonato e arrangiato con estrema sapienza. Il platter si presenta subito bene con Dante suite, composizione divisa in tre parti in cui viene presentata la visione d’insieme di questa band, con Roberto soave nel fraseggio pianistico, Russo e Nappo dinamici nel dare un’impronta quasi hard a certi passaggi e una sezione ritmica che dona il giusto supporto in termini di potenza ed eleganza. Non mancano ovviamente i sinfonismi tipici del genere, a cui vengono contrapposte dolenti note acustiche e virtuosismi che, a dire il vero, non ho trovato fuori luogo ma dosati con sapienza da interpreti che guidano con maestria i loro strumenti. All change cita Emerson Lake & Palmer e Quatermass, per poi sfoderare passaggi al limite della fusion, mostrando la capacità dell’ensemble di variare lo spartito anche nella singola traccia. Stupenda Tra fuoco e fiamme, dieci minuti sintesi dei suoni di Dante, tra spirali classicheggianti e parti più dure, fughe tastieristiche e soli di chitarra (in questo caso di un notevole Nappo). Open your heart è una tenue ballata che si sviluppa sulle intuizioni del leader, davvero una grande e sensibile song, un momento di passaggio prima di Lisea (eroica vestale tarantina), un altro ottimo viaggio sospeso egregiamente sull’interplay tra parti di spessore tecnico e un livello di lirismo non comune. Funky disco, lo dice il titolo, è più leggiadra ma non per questo frivola, segno delle enormi possibilità del gruppo. Finale affidato alla curiosa Toccata, che inizia come il solito omaggio alla fusione tra classica e rock per poi aprirsi verso suoni latini inaspettati! The circle è un bellissimo esordio e ha tutte le carte in regola per suscitare emozioni sia nei fan del prog rock più canonico che in quello robusto di Dream Theater e affini. (Luigi Cattaneo)
 
Lisea (Video)
 

lunedì 6 novembre 2017

CIRCUS NEBULA, Circus Nebula (2017)


Nati nel lontano 1988 a Forlì, i Circus Nebula arrivano solo ora al debut grazie alla sempre lodevole attività della Andromeda Relix e confermano quanto fatto vedere in quasi 30 anni di attività, con strutture e riff di matrice hard che si sposano con l’immediatezza furente del r’n’r sessantiano e la psichedelia che incontra la passione per il cinema horror e i b-movies. Marco Bonavita (voce anche di Amphetamine e Nasty Tendency), Alex Celli (ex chitarrista dei bravi Buttered Beacon Biscuits), Bobby Joker (batterista già presente nei Diatriba), Michele Gavelli (tastiere, in comproprietà con i Blastema) e Frank Leone (già Nasty Tendency e ora con il grande Michael Vescera) sono il quintetto che ha dato vita ad un esordio dove, a fianco dei cavalli di battaglia di sempre, troviamo inaspettati inediti di spessore. Così tanta perseveranza riempie i solchi di questa opera prima, diretta conseguenza di demo, apparizioni su compilation e live aperti per Paul Chain, Death SS e Dogs D’Amour, una forza propulsiva contagiosa che parte in quarta con Sex garden, potente ma molto melodica. Il singolo Ectoplasm è puro hard rock, mentre più darkeggiante è Here come the medicine man, prima della briosa verve di Rollin thunder, un rock ‘n’ roll diretto e assolutamente convincente. Dopo un inizio così scoppiettante il quintetto propone una valida ballata, Vacuum dreamer, per poi tornare con fermezza al roccioso rock di Welcome to the Circus Nebula. Ci si sposta sul versante heavy con la ferrea 2 loud 4 the crowd e da lì in poi i romagnoli non staccano più il piede dall’acceleratore, regalandoci la profonda Electric twilight, la dura Head-Down, la grinta live e quasi punk di Mr. Pennywise e il finale scoppiettante di Spleen. Trent’anni di attesa fieramente ripagati fanno di questo Circus Nebula un disco genuino e verace, pieno di passione per un genere immortale di cui c’è bisogno e sempre ce ne sarà. (Luigi Cattaneo)
 
Album Promo Teaser
 

sabato 4 novembre 2017

LE JARDIN DES BRUITS, Assoluzione (2017)


Tony Vivona (basso, farfisa, chitarra e pianoforte, già con Dea, Radioattivi e Verde Matematico, giusto per citare qualche suo progetto) e Simone Tilli (cantante attivo con Lirico, Carnera e Deadburger, tra gli altri) sono il duo dietro il monicker Le Jardin des Bruits e Assoluzione è il loro primo lavoro, registrato insieme ad una serie di musicisti perfettamente calati nel contesto indie rock proposto. I riff distorti su cui sono stati creati i brani sono la colonna portante di un album introspettivo in cui emerge l’amore non solo per il rock americano ma anche per quello italiano dei ’90, così come per l’indie, l’alternative, la new wave e il cantautorato. Pur non essendo un concept la tematica religiosa è il filo conduttore del platter e i personaggi tracciati finiscono per subire una certa condizione e la musica che sottolinea gli eventi risulta immediata ma stratificata, soprattutto nella scelta degli arrangiamenti, una somma di più elementi e suoni non sempre del tutto a fuoco ma sicuramente interessanti. Le idee che si sviluppano attorno ad un’elaborata forma canzone si manifestano già nell’iniziale Ovunque e comunque, dove le rose rosse citate non sono quelle del Massimo Ranieri targato 1969 ma presentano spine dolorose, che Vivona (impegnato qui anche all’organo Farfisa) e compagnia gettano in faccia all’ascoltatore. Seguono la dolente Salvami e la bella ballata Scatola di stelle, impreziosita da un trio d’archi formato da Jamie Marie Lazzara (violino), Giulia Nuti (viola) e Pedru Gabriel Horvat (violoncello). Non mi ha convinto del tutto Gesù di maggio, che ho trovato con meno mordente delle precedenti, seppure è solo un attimo, perché già la successiva malinconia di Wrongsong riporta tutto su standard più alti, anche grazie alla voce di Elisa Lepri che ben si sposa con quella di Tilli e al tocco di Gianni Fini alla slide guitar, uno strumento sempre ricco di fascino. Ottima la title track, dove Tilli diviene grande narratore con uno spoken word efficace e dai toni plumbei, così come di rilievo è Impressioni di novembre in cui la band si diverte a citare la P.F.M. e ripropone la vena classicheggiante della Nuti e di Horvat atta a creare un curioso interplay con il taglio indie della composizione. Più banale Mentre fuori il giorno muore, mentre tentano la carta sperimentale con Le Jardin des Bruits, episodio a sé in cui è stato utilizzato un contrabbasso elettrificato per sviluppare un plot ritmico su cui innescare la viola e il violoncello. Chiude il disco l’amara conclusione di Come sempre (in cui compare il clarinetto di Matteo Bianchini), perfetto finale di un esordio assolutamente piacevole. (Luigi Cattaneo)
 
Ovunque e comunque (Official Video)