lunedì 29 giugno 2020

UPANISHAD, Crossroad (2019)


Nati nel lontano 2000 come gruppo punk rock, gli Upanishad (Vanni Raul Bagaladi alla chitarra e alla voce, Mirko Bazzocchi al basso e Lapo Zini alla batteria) nel corso del tempo hanno sviluppato importanti e interessanti influenze crossover e progressive, che li ha portati a incidere, dopo un periodo di pausa, Crossroad, full targato Red Cat Records. Lo stile dei toscani si è tinto negli anni di psichedelia e di prog, un substrato maturo e con una propria complessità, particelle di alternative americano che si dipanano verso la magia degli A Perfect Circle e la laboriosa struttura decantata dai Tool. Bivi, salite e discese, anche emozionali, che hanno bisogno di attenzione da parte di chi ascolta, catapultato in un mondo fatto di hard, melodie immediate, impatto rock e allusioni progressive. Look at you è il raffinato inizio, potente e viscerale, This room si colora con le congas e il djembe di Lisandro Cancellieri, a cui va aggiunta la voce di Olivia Grace, per quello che è uno dei momenti più significativi del lavoro. La cura messa in campo dagli Upanishad emerge anche in brani come Parasite o Side effects, singolari esempi di come il trio porti avanti un discorso strutturato da elementi differenti ma che finiscono per combaciare, dando vita a qualcosa di credibile e organico. Stupenda la trama strumentale di Spikes trap, mentre Clouds e The river mostrano con consapevolezza il lato psichedelico della proposta. La conclusiva No way out chiude ottimamente un lavoro che mostra dedizione e grandi capacità. (Luigi Cattaneo)

This room (Video)



sabato 27 giugno 2020

SINTONIA DISTORTA, A piedi nudi sull'Arcobaleno (2020)


Tornano dopo ben quattro anni e qualche nuovo innesto i Sintonia Distorta, band di Lodi formata da Simone Pesatori (voce anche del progetto Èmonis e dei Seventh Season), Claudio Marchiori (chitarra), Gianpiero Manenti (tastiere), Marco Miceli (flauto e sax), Fabio Tavazzi (basso) e Giovanni Zeffiro (batteria), a cui va aggiunta l’esperienza di Fabio Zuffanti nelle vesti di produttore artistico. L’inserimento magistrale dei fiati e un sound che rimarca imput hard ma guarda con maggiore compiutezza al progressive italiano, ha portato i lombardi alla creazione di un piccolo gioiellino, complice una cura per la scrittura davvero notevole, che marchia a fuoco un come back con tutte le caratteristiche del classico disco che può durare negli anni. I sei brani mostrano una fecondità di idee non indifferente, complice probabilmente una maturità del tutto raggiunta dopo anni di creazioni e ricerca di un suono proprio, con gli ospiti presenti che innalzano ancora di più l’alto livello raggiunto. Impossibile quindi non citare Roberto Tiranti e il suo duetto memorabile con Pesatori nell’iniziale Solo un sogno ( … dimmi che ti basta), il grande Luca Colombo alla chitarra nell’ottima e commovente title track e Paolo Viani, degli indimenticati Black Jester, alla chitarra nella notevole e progressiva La rivincita di Orfeo. Proprio i Black Jester e Loris Furlan della Lizard Records (etichetta della band) che scrisse il testo, vengono omaggiati nella conclusiva Madre Luna, rivisitazione di Mother Moon (presente in Diary of a blind angel del 1993), accompagnati da I Musici Cantori di Milano diretti da Mauro Penacca, non una cover ma un tributo, che diviene sincero omaggio anche alla figura dell’appena scomparso Alessio D’Este, vocalist storico dei trevigiani. (Luigi Cattaneo)

Solo un sogno ( ... dimmi che ti basta) (Video)



martedì 23 giugno 2020

SALMAGÜNDI, Rose Marries Braen - A Soup Opera (2019)


Torna la follia in musica, tornano i Salmagündi, quartetto formato da Franco Serrini (voce e synth), Enzo P. Zeder (basso e synth già conosciuto per i progetti Kotiomkin ed Egon Swharz), Francesco Pacifici (basso) e Mattia Maiorani (batteria), di cui già avevo decantato le lodi per l’esordio Life of brain. La schizofrenia del debutto non si è attenuata, e le nevrotiche pulsioni crossover forgiano un ritorno in cui pezzi come I ate you! o The big bother mostrano come si possa scrivere in modo originale senza scadere nell’incomunicabilità, tra sfuriate ritmiche, rallentamenti psichedelici, cadenzate invocazioni, tempi dispari e una serie micidiali di idee che potrebbero firmare almeno il doppio dei pezzi. Cheese fake è un altro tributo alla libertà di pensiero, una struttura lontana da forme mentis omologate che diviene straniante fascino emotivo. Cockayne si muove sinuosa e free tra recitativi, linee di basso ipnotiche e synth impazziti, per terminare in un caos noise e schizzato. Quando fare progressive significa fregarsene e seguire l’istinto, unire generi legandoli tra loro, cosa che accade anche nelle ottime Mrs Braen aka Tanta Voglia Delay e Mumbo Jumbo, in cui Serrini in alcuni momenti ricorda la varietà stilistica di Mike Patton e Serj Tankian. D’altronde il mondo di Patton, unito a quello policromo di Les Claypool e alle visioni geniali di Zappa, sembrano tra gli imput del progetto ma il tutto è riletto e aggiornato con una personalità che diviene puro e candido menefreghismo. Chiude lo stralunato viaggio Rose marries B (W-Omen), una sorta di lungo outro strumentale che si discosta da quanto ascoltato sinora, finale sospeso e dai contorni indefiniti, come sono quelli di una band assolutamente fuori da ogni schema e forse anche da ogni logica. (Luigi Cattaneo)

Mumbo Jumbo (Video)



sabato 20 giugno 2020

LUCA SELLITTO, The Voice Within (2019)


Abbiamo conosciuto le capacità di Luca Sellitto con gli Stamina, band power prog attiva dal 2007 di cui il chitarrista è leader e compositore e con cui ha registrato 4 album in studio e l’ottimo Live in the City of Power (recensito da queste pagine ai tempi dell’uscita). Per questo lavoro in solitaria Luca sceglie la via del tributo, dell’omaggio alla sua passione per il neoclassico, creando un piccolo gioiellino che potrà senz’altro fare la felicità di quanti sono cresciuti con la musica di Yngwie Malmsteen, Royal Hunt e Stratovarius. Nasce così The voice within, disco in cui Sellitto (che per l’occasione si è occupato anche delle parti di tastiera) viene coadiuvato da una sezione ritmica mastodontica, formata da Patrick Johansson alla batteria (ex Malmsteen; Impellitteri; Vinnie Moore) e Svante Henryson al basso e al violoncello (ex Malmsteen; Joey Tempest) e da una serie di cantanti di prim’ordine. La scoppiettante partenza di Second to none con Rob Lundgren (The Mentalist) ci riporta alla fine degli anni ’90, quando il power metal esplose sfornando dischi di altissimo livello, doppiata da un altrettanto valida Land of the vikings, cantata dal grande Goran Edman (ex Malmsteen; John Norum). Ètude è il primo strumentale dell’album, in cui Luca dà sfoggio di tutta la sua tecnica, What if? si gioca la carta Henrik Brockman alla voce (ex Royal Hunt; Evil Masquerade), per un pezzo più ragionato e meno aggressivo, mentre Shadows of love vede di nuovo Lundgren impegnato dietro il microfono, per dare vita all’ennesimo episodio molto convincente. Buonissima la strumentale The Champion’s code, Lundgren si ripropone nella vibrante Into the light, prima della conclusiva Tearful goodbye, malinconico strumentale che chiude un esordio ispirato, in cui Sellitto ha puntato molto su un songwriting attento e curato, senza strafare sul lato prettamente tecnico, elemento presente ma che finisce per non essere preponderante, scelta di gusto e decisamente azzeccata. (Luigi Cattaneo)

Land of the Vikings (Video)



giovedì 18 giugno 2020

MAGIA NERA, La Seconda Chance



La storia del progressive italiano ci ha spesso insegnato, che per quante band siano emerse tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70, ci saranno sempre meteore che per motivi di varia natura, finiranno per essere ricordati come gruppi misteriosi, di cui si è sentito parlare negli anni, che hanno lasciato dietro di loro fantasie e aneddoti, ma nessun disco, salvo poi chiedere a gran voce, una seconda chance. Negli ultimi anni abbiamo assistito al debutto di Quanah Parker, Sigmund Freud, Struttura e Forma, Baro Prog – Jets, Il Cerchio D’oro o Posto Blocco 19, tutti esempi lungimiranti di ensemble che solo il tempo ha riportato a galla, dando loro una visibilità che ha reso possibile conoscere realtà valide e interessanti. Non fanno eccezione i Magia Nera di Bruno Cencetti, nati ufficialmente nel 1969 (ma vi è un preludio a nome Nuova Esperienza, monicker decisamente più beat) di cui si parlava dalle pagine dello storico Ciao 2001 nel lontanissimo 17 ottobre del 1972, in un articolo firmato da Massimo Scatizzi, che ne decantava lodi e qualità, oltre che raccomandare i discografici di capire i cinque ragazzi, impegnati in un hard rock duro e miscelato al blues. Ma allora cosa è successo al quintetto? Come mai la storia ha scritto per loro un tragitto che li ha portati solo nel 2018, dopo decenni di oblio, ad incidere l’ottimo L’ultima danza di Ophelia? La leggenda (vera o presunta) vuole che nel 1973, un incendio distrusse il loro furgone e tutte le registrazioni dei liguri, pronti a debuttare di lì a poco, spegnendo i sogni di gloria di amici cresciuti con Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, Cream, Uriah Heep e Jimi Hendrix. Tempi in cui i Magia Nera portano la loro musica (fatta essenzialmente di cover rivisitate) nei festival, condividendo il palco con i Latte e Miele e i Come le Foglie (era il 22 luglio del 1972 quando a Bottagna, in provincia di La Spezia, si svolgeva il Free Folk Festival), facendo vincere la passione contro le difficoltà quotidiane, fatte di rate degli strumenti da pagare, pause forzate e desideri infranti. Ma quell’alone di fascino, insito in racconti velati di culto, porta il produttore spezzino della Akarma Giorgio Mangora, curioso lettore proprio di Ciao 2001 e dell’opera Rock ribelli e avanguardia di Diego Sanlazzaro, a contattare Cencetti, chitarrista e leader dei liguri. La reunion con la formazione del 1972 (ad esclusione del tastierista Orazio Colotto, che si è trasferito in America ed è stato sostituito da Andrea Foce, troviamo Emilio Farro alla voce, Lello Accardo al basso e Pino Fontana alla batteria) porta alla pubblicazione di L’ultima danza di Ophelia, granitico hard prog che omaggia le influenze di una vita, seppure Bruno ci tiene a precisare che il disco è stato scritto tutto nel presente, pur avendo un forte sguardo verso i gloriosi ‘70. Elemento imprescindibile nella sontuosa Suite: dieci movimenti in cinque tracce, quasi venti minuti in cui emerge tutto il background di Cencetti e soci. Il dark prog ammalia la title track, prima dell’oscura e sabbathiana Il passo del lupo, mentre gli Uriah Heep di Very ‘Eavy … Very ‘Umble vengono citati in La strega del lago e nella cover Gipsy. Notevole e tirata anche La tredicesima luna, che mostra un songwriting sì vintage ma fresco e ispirato. 


Le buone reazioni dopo l’uscita di questa opera prima portano i liguri a lavorare da subito su nuove idee, che si concretizzeranno con l’uscita, qualche mese fa, di Montecristo, concept album improntato sull’omonima opera di Alexandre Dumas del 1844. Proprio come per il precedente i Magia Nera creano una miscela esplosiva di hard, prog e dark, un impronta da rock opera che si sviluppa come un’unica suite suddivisa in quattro capitoli, macroaree dove la narrazione segue l’incedere della storia in maniera innegabilmente coinvolgente. Tra ritmiche dispari e potenti, una chitarra aggressiva e sempre ben presente, un Hammond inquieto (suonato dal nuovo arrivato Fabio D’Andrea, impegnato anche al basso, alla chitarra e alle percussioni) che sostiene la vocalità spinta di Farro, si dipana il racconto che vede Edmond Dantes protagonista di una trama fatta di prigionia, fuga e vendette. La tenacia di Cencetti e l’amore per la musica marchiano a fuoco il nuovo percorso dei Magia Nera, regalandoci l’ennesima sorpresa targata anni ’70, meritevole di apprezzamenti e di essere sostenuta da tutti gli amanti di certi suoni. (Luigi Cattaneo)



mercoledì 17 giugno 2020

KIWIBALBOA, Natale in Argentina (2019)


Secondo lavoro per i KiwiBalboa (dopo Tre buoni motivi del 2016), terzetto genovese formato da Tommaso Dogliotti (voce e chitarra), Stefano Previtera (voce e basso) e Amedeo Marci (batteria), che arriva al nuovo Natale in Argentina forti del contratto discografico con la sempre ottima Overdub Recordings e la produzione artistica di Davide Auteliano (impegnato anche alla 12 corde ebow), membro dei Ministri. L’indie rock del trio è fluido e comunicativo, vive di momenti legati al pop, riuscendo a colpire con melodie di semplice lettura sin dai primi ascolti, caratteristica che emerge con forza per via di un songwriting che si fa scevro di sovrastrutture e orpelli, preferendo essere diretto e immediato. L’appeal di pezzi come Magari no o Cavalieri Jedi funzionerebbero anche nelle radio nazionali, seppure si lasciano preferire Incendio e Ponte Garibaldi, che mettono insieme testi interessanti e pulsioni cantautorali. Tirata e aggressiva Livello di rischio, sfuma nella più moderata e piacevolissima Mille, per poi perdersi nelle trame della valida Straniero e nell’ottima Vento del Nord. Il finale è ad appannaggio dell’ipnotica title track, che chiude un disco riuscito e molto gradevole. (Luigi Cattaneo)

Natale in Argentina (Video)  



lunedì 15 giugno 2020

CONCERTI DEL MESE, Giugno 2020

 Martedì 23
·Liberae Phonocratia a Milano

Venerdì 26
·Arturo Stàlteri a Portomaggiore (FE)
·The Coastliners a Roma

domenica 14 giugno 2020

VANIGGIO, Solo un sogno (2019)


Ricca la biografia di Vaniggio, alias Ivan Griggio, svizzero in pista dal 1993 con i Versivari, band crossover ticinese che ha aperto live per Ligabue, Marillion ed Elio e le Storie Tese. Ivan ha esperienze consolidate e variegate, collabora con Gionata, cantautore dal taglio bizzarro, ma anche con i Matamachete prima, folle ensemble industrial metal, e con George Merk poi, per un album dalle tinte indie pop. Nel 2019 Griggio fa il grande passo, ossia un disco scritto interamente da lui, dove lo svizzero suona il basso e canta, accompagnato da Roberto Panzeri alla batteria, Cristiano Arcioni all’Hammond e al piano, Diego Belluschi alla chitarra elettrica e Roberto Invernizzi alla chitarra acustica. Viste le premesse e il background vario di Ivan, che album è Solo un sogno? È un lavoro intimo, anche se rock nel suono, dove l’autore sembra essersi concesso, racconta storie di vita quotidiane, amarezze e suggestioni, con testi che preferiscono essere diretti, evitando troppi giri di parole. La formula funziona, seppure è piuttosto consolidata, imbevuta di tirate ora più hard, ora vicine al pop rock, con una grande attenzione per la forma canzone, elemento che Vaniggio maneggia senza grosse difficoltà. A volte basta è l’inizio che racchiude un po’ tutte le caratteristiche del lavoro, con un chorus potente e tirato che echeggia come un macigno, sostenuto da ritmiche crossover e un bel riff di Belluschi. Amoreuncazzo ricorda Vasco Rossi, per un pezzo gradevole e che si lascia ascoltare, prima di Ogni vestito, grintosa ed energica, e Dai un nome alle cose, con l’Hammond del bravo Arcioni che diviene ancora più protagonista. La title track continua a muoversi in direzione di un rock radiofonico ben suonato e arrangiato, Mai come sembra esplode con impeto nel massiccio chorus, mentre Una carezza non vuol dire amore alleggerisce i toni ma non convince del tutto. Il finale ci consegna dapprima l’ironica Favole e soprattutto Stessi sbagli, robusta conclusione di un esordio che, pur non inventando nulla di nuovo, riserva buone trame e diversi pezzi di spessore. Ovviamente chi cerca strutture complesse e articolate, messaggi nascosti o testi poetici non li troverà di certo qui, Vaniggio punta molto sull’impatto e su un songwriting diretto e senza tanti fronzoli, seppure i musicisti chiamati in causa sono tutti di buonissimo livello, e hanno saputo creare un disco, che seppure con qualche calo, risulta piacevole nella sua interezza. (Luigi Cattaneo)

Stessi sbagli (Video)



sabato 13 giugno 2020

WARMHOUSE, 1984 (2020)


album 1984 - Warmhouse
Curiosa la storia dei Warmhouse, che inizia con l’acquisto di una vecchia Casio – Tone degli anni ’80, nel cui involucro viene ritrovato un quaderno ingiallito e colmo di versi d’amore, di prigionia, di rimorso, narrazioni inquiete datate 1984 e firmate da un certo Patrick R. Le pagine di quel ritrovamento diventano lo spunto compositivo per i pugliesi, che pubblicano ora un ep d’esordio robusto ed energico, omaggio alla new wave nata nella terra d’Albione e ancora oggi presente nella cultura di band come Arctic Monkeys, Strokes e Interpol. Un post punk che quindi si imparenta con l’indie rock e che vede Francesco Elios Coviello (voce e synth), Agostino Nestola (chitarra e synth), Davide Cimmarusti (batteria) e Pasquale Monti (basso), protagonisti di un sound corposo e vitale. Quello di 1984 è ovviamente un breve resoconto delle esperienze sin qui intraprese dal quartetto, un biglietto da visita in attesa di qualcosa di più sostanzioso e che possa evidenziare un ulteriore crescita nel gruppo, che pare avere tutte le doti per emergere, almeno nella folta scena alternative tricolore. La title track iniziale, dalla vena malinconica, espone subito le qualità della band, a suo agio tra ritmiche rock e pulsioni di inizio 2000. La carica di Molko Monday, con il suono dei synth a sottolineare l’intensità del racconto (con l’ospite Dario Tatoli), pare il pezzo più a fuoco dell’album, forte di un chorus davvero azzeccato. Marble (dove troviamo Luigi Lafiandra ai synth e Tatoli, che oltre ai synth, suona la chitarra con l’ebow) e Pearl Moon chiudono questo valido ep tra suggestioni post e inflessioni wave. (Luigi Cattaneo)




giovedì 11 giugno 2020

VAREGO, I, Prophetic (2019)


Uscito nel 2019 per Argonauta Records, I, Prophetic è l’ultimo lavoro in studio dei Varego, band formata da Davide Marcenaro (basso e voce), Alberto Pozzo (chitarra), Gerolamo Lucisano (chitarra) e Simon Lepore (batteria), attiva da più di dieci anni e che arriva ora al terzo full dopo Tumultum e Epoch. Dopo una breve intro si parte subito fortissimo con The abstract corpse, aggressiva e potente sin dalle prime battute, vive su un incedere stoneriano rilevante e marcato. La title track sprizza sludge da tutti i pori, miscelandolo con vagiti psichedelici, chiamando in causa i grandi Melvins, prima di Of dust, che non disdegna passaggi grunge, e Silent giants, raffinata nel suo muoversi tra momenti suggestivi e picchi heavy. Ci avviciniamo alla conclusione dapprima con l’impeto stoner di When the wolves howl e poi con Duelist e Zodiac, pezzi che mettono insieme le varie influenze del quartetto ma sempre rielaborate secondo un ottica personale, che rende il prodotto finale davvero interessante ed elaborato. (Luigi Cattaneo)

Duelist (Video)



mercoledì 10 giugno 2020

KOZA NOZTRA, Sancta Delicta Atto II (2019)


Seconda parte di Santa Delicta per i Koza Noztra, band formata da L’onorevole (voce), L’annunciatrice (voce), Il diacono (chitarra), Recupero Crediti (chitarra), Calibro 9 (basso) e Il trafficante (batteria), pseudonimi bizzarri per un progetto pieno di metallico sarcasmo. La nera ironia invade la feroce La valle dei morti, puro heavy cantato in italiano, a cui si oppone la tenebrosa Illuminata/Magia Nera, dal mood doomy e con la presenza di Agghiastru (leader dei black metallers Inchiuvatu e autore di una personale carriera a proprio nome). Un bel riff hard sostiene la detonazione di Stato d’assedio, tra i pezzi migliori del lavoro, Tempo di crisi racconta invece in  maniera caustica la globalità della socialità attuale, con uno spirito heavy davvero potente. Anche Koza Noztra diviene grottescamente pungente, ispirata a Ka – Ching ! di Shania Twain, mentre Essi vivono conferma l’attenzione per testi da ascoltare con cura e una predisposizione verso il metal ottantiano. Il finale è ad appannaggio dell’ottima strumentale Requiem (In un battito di ciglia), cupa e tetra chiusura di un ritorno davvero molto interessante. (Luigi Cattaneo)

Requiem (Video)



sabato 6 giugno 2020

ORNE, The tree of life (2013)


Nati dai Reverend Bizarre, quotato gruppo della scena doom, gli Orne sono stati da subito alfieri di un ispirato dark prog infarcito di folk, con uno sguardo al passato che si traduce in dischi incisivi e pieni di fascino vintage. The tree of life del 2013 si apre con Angel eyes, prima perla del lavoro, prima di Temple of the worm, che mette bene in evidenza la capacità della band di creare scenari languidi, ricchi di un pathos fortemente malinconico, in cui è la chitarra di Kimi Karki a tratteggiare con cura tali atmosfere, soprattutto nelle parti più lente. Quando invece gli Orne si spingono su lidi progressive c’è la mano di Pirkka Leino, con il suo hammond, a guidare il gruppo e di questo ne è grande esempio il bellissimo finale strumentale. La seguente The return of the sorcerer mantiene intatto il carattere evocativo, quasi spirituale del complesso, con suoni oscuri e tematiche che seguono di pari passo lo spartito. A differenza di Temple of the worm qui la band si esprime attraverso una spettrale ballata, dove solo Karki rompe la linea guida della composizione con un solo ricco di tensione emotiva. Di ottima fattura anche Don’t look now, che oscilla tra momenti strumentali corali che denotano un amalgama raggiunta appieno e parti cantate con trasporto. Il momento migliore appare però il finale in cui gli Orne danno libero sfogo alla fantasia e si avventurano con l’immancabile hammond in territori prog molto settantiani. C’è un carattere fortemente acustico nei primi minuti di Beloved dead, almeno sino al riff all’unisono di chitarra e hammond, che apre la luce su un altro aspetto del gruppo che sin qui era emerso meno, ossia l’amore per sonorità hard, che coinvolgono anche il cantato di Sami Albert Hynninen, che si fa decisamente più aggressivo. Leggermente meno introspettiva è I was made upon waters, che ha al suo interno un po’ tutti i cromosomi musicali dei finlandesi e in particolare qui viene curato l’aspetto melodico, anche attraverso dei passaggi vicini al folk, oltre a quello corale che riesce ad esaltare ulteriormente le capacità di songwriting di Karki. Si sfuma nell’inquietudine di Sephira, omaggio al dark progressivo e all’hard rock, in cui il breve testo pronunciato con voce sporca da Hynninen lascia campo al sax di Lea Tommola ben supportato da una band davvero compatta. (Luigi Cattaneo)

Full Album Video



mercoledì 3 giugno 2020

TWELVE, Twelve (2020)


I Twelve sono una band colombiana che arriva, dopo un periodo di rodaggio, alla pubblicazione di un primo ep omonimo, crossover di stili e ponte tra rock elettronico, alternative e spore progressive, un suono che finisce per chiamare in causa Incubus, A Perfect Circle, Dredg e Hoobastank. Le note delicate della ballata She sings diventano manifesto della capacità dei sudamericani di scrivere deliziose melodie pop rock, Tonight ha un mood malinconico che seduce, mentre Sunny day riporta all’alternative rock statunitense di fine anni ’90. Come back home chiama in causa tutte le componenti sin qui citate, con quella elettronica che marchia a fuoco uno degli episodi più riusciti di questo debutto. Vanno però citate anche Never e This is the end, brani che rapiscono per quella capacità di comunicare emozioni, cosa non da poco quando si fa arte. I colombiani hanno indubbie doti, vediamo se il futuro rispetterà le premesse del lavoro sin qui svolto. (Luigi Cattaneo)


Tonight (Video)

LIBET, Il primo ritratto (2020)


Il primo ritratto è l’esordio dei Libet, duo di Torino composto da Marco Natale (chitarra, basso, pads) e Alan Spanu (voce, synth e pianoforte), che arrivano a questo breve debutto (25 minuti circa) con le idee piuttosto chiare e forti di un songwriting che mette insieme cantautorato, elettronica, piccole dosi di ambient mescolate a vagiti industrial. Una sperimentazione che si presenta da subito con la delicata Lei, crossover tra canzone d’autore ed elettronica, un inizio tenue davvero gradevole. Stasi è invece più ritmata, con la voce di Spanu che rimane sottotraccia, un sussurro lieve di grande effetto, prima dell’onirica La mia posa e dell’interessante Sospetto, dove un certo colto rumorismo accompagna i versi di Spanu. In Dashi l’elettronica diviene elemento centrale e sfuma in L’indirizzo sbagliato, altro episodio dove i Libet mettono insieme cantautorato e IDM. La breve strumentale Dall’indaco ci conduce alla conclusiva Anastasia, valido finale di un lavoro dove il duo è riuscito a mettere insieme beat e campionamenti, folk ed elettronica, con una certa freschezza e fluidità. In attesa di qualcosa di maggiormente corposo, l’opera prima dei Libet non può che suscitare interesse e curiosità. (Luigi Cattaneo)

lunedì 1 giugno 2020

L'ULTIMODEIMIEICANI, Ti voglio urlare (2020)


Uscito a fine 2019, Ti voglio urlare è il primo full dei L’ultimodeimieicani (dopo l’ep In moto senza casco), album istintivo, legato a racconti emotivi, storie di vita, di amori, paranoie e relazioni sociali, registrato a Genova sotto la supervisione del produttore Mattia Cominotto. Gelato, traccia tra le più riuscite, è uno dei singoli proposti, introspettivo e malinconico, vede la partecipazione del rapper Canca e di Olmo Martellacci degli Ex-Otago al sax, band accostabile per sound al quintetto formato da Lorenzo Olcese (voce e chitarra acustica), Rachid Bouchabla (batteria e percussioni), Beniamino Parodi (chitarra e basso), Stefano Pulcini (chitarra e basso), Pietro Bonuzzi (chitarra e synth). L’ottima Everest vibra grazie ad un attento uso dei synth, gradevole la ritmata Provincialismo, mentre 5 minuti di tristezza cosmica e Ciao sono puro indie pop-rock, leggero ma forte di una scrittura sicura e intelligente. Dolore appare notturna e inquieta, la title track mostra la capacità di raccontare in pochi minuti storie quotidiane, ma i ragazzi sanno essere anche pungenti e ironici, come in Pensione a vent’anni. Sirene racconta il rapporto conflittuale con la propria città di provenienza, con la chitarra che diviene protagonista di un suono spigoloso ed elettrico. Cosa vuoi cambiare si pone domande e incertezze, quelle di una generazione che si muove tra dubbi e ansie su un futuro tutto da scrivere. Esordio positivo, pieno di sincerità e voglia di comunicare, brioso ma che non scade mai nel facile pop da classifica. (Luigi Cattaneo)

Cosa vuoi cambiare (Video)