sabato 7 settembre 2013

GENTLE GIANT, Gentle Giant (1970)

Dietro ad una delle più note icone del rock progressivo, ossia l’immagine del Gigante Buono posto in copertina dell’album, si apre un disco coraggioso e innovativo, fresco e già maturo, tecnicamente ineccepibile, capace di combinare rock elettrico, fiati, musica classica, jazz e folk. Stupisce la straordinaria preparazione strumentale di musicisti allora quasi sconosciuti e all’esordio discografico. Il gruppo si presenta con Giant. Si tratta di una composizione robusta e dai tratti vagamente hard, con la voce da subito in primo piano. Il brano appare diviso in tre parti: nella prima parte il gruppo mostra grande compattezza, vengono limitati gli episodi solistici a favore di una musica atta a supportare le qualità vocali di Derek Shulman. Difatti Giant dopo una brevissima introduzione di organo si presenta in tutta la sua carica, vocale e strumentale. In questa sezione la band mostra quelle che diventeranno alcune delle sue caratteristiche basilari come le ritmiche sincopate e complesse e le sofisticate progressioni armoniche. La seconda parte si apre dopo 3 minuti e 15 secondi. Qui la band abbandona la forza debordante dei primi minuti per lasciare spazio ad un momento strumentale dove la sezione ritmica soffusamente jazzata ci conduce per mano in territori epici. La terza ed ultima parte che inizia dopo 5 minuti e 37 secondi è difatti un ritorno alla prima sezione, con il basso che ci guida rapido ad un cambio di atmosfera piuttosto netto e repentino, con la voce di Derek Shulman da subito presente.   Orchestrale la stesura di Funny ways. Nei primi 2 minuti la composizione  è delicata e intensa, hai toni di una morbida ballata progressiva con l’andamento del violino di Ray Shulman posto in evidenza, così come il violoncello suonato dall’eclettico Minnear capaci di sostenere il cantato semplice ma allo stesso tempo intimistico di Derek Shulman. Funny ways esprime perfettamente una caratteristica saliente del sound dei Gentle Giant quando la voce vellutata di Phil Shulman si contrappone a quella più dura ed aggressiva di Derek creando un effetto particolare: una sorta di sdoppiamento tra qualcosa di lineare e qualcosa di maggiormente graffiante dove è la potenza vocale a fare da supporto al brano e la forza espressiva delle voci viene utilizzata come marchio di fabbrica per la ricerca di raffinatezze davvero inusuali. Prima di arrivare alla conclusione del brano la band si esprime con forza attraverso la coesione dei vari strumenti, su cui spicca un breve momento solistico della chitarra di Gary Green, l’organo di Minnear e la tromba di Phil Shulman. In questo caso la band raggiunge una straordinaria compattezza d’insieme diventando così una perfetta macchina di vibrazioni sonore. La terza traccia del disco è Alucard, uno dei momenti più intricati di questo debutto. Il brano è quasi interamente strumentale e gli spunti vocali sono pochi ma molto arditi. Il pezzo ha una propria struttura barocca su cui si innestano dissonanti cori vocali e rispecchia una stesura live, con quella carica tipica dei concerti della band. C’è un intreccio di spunti strumentali di grande valore all’interno dei quasi 6 minuti della composizione: il moog di Minnear ha il pregio di creare una sorta di ritornello suonato che verrà ripetuto diverse volte intrecciandosi con i fiati di Phil Shulman per un effetto finale inusuale, la chitarra solista di Gary Green spicca per la sua grande incisività, Martin Smith alla batteria suona energico ma preciso. Rifinito e complesso in ogni sua sfumatura il brano propone temi virtuosistici ma non altisonanti, sviluppati con ammirevole affiatamento da una band in evidente stato di grazia. Il quarto brano di questo esordio è Isn’t it quiet and cold, episodio molto diverso rispetto a quelli finora analizzati. C’è da dire che i Gentle Giant non erano una band costruita attorno al violino, ma un gruppo in cui questo strumento interviene sporadicamente per dare colore al pezzo. A parte gli interventi di accompagnamento dove risultava necessario, è uno strumento a cui la band ha dedicato nel corso della propria carriera pochi brani ma per intero. In Isn’t it quiet and cold il gruppo mette in mostra le proprie capacità di arrangiamento e il violino di Ray Shulman si esibisce in un tema cantabile, solitario e dai toni popolari che accompagna per tutta la durata del pezzo la voce di Derek Shulman. Differente è il clima della successiva Nothing at all, lunga 9 minuti e capace contenere al suo interno tutti gli elementi che hanno reso celebre il gruppo. Il brano nella prima parte è delicato nelle voci, con impostazione a tratti corale volte a creare suggestive armonie, dapprima sostenute da un delicato arpeggio di chitarra acustica e poi da quella elettrica di Gary Green, che qui si dimostra solido e dotato di una tecnica raffinata capace di donare grinta e vigore. Dopo 4 minuti e 20 secondi termina la prima parte e nel break centrale Martin Smith esegue un solo di batteria come non poteva mancare nelle esibizioni live del periodo. Interessante notare come all’interno di questa parte centrale si sovrapponga alla batteria il piano di Minnear che cita un notturno di Lisz, il Liebestraum, del 1850. Il brano termina poi con la ripresa del tema principale già ascoltato nella prima parte del pezzo. Why not ci riporta alle atmosfere dell’opener Giant. Difatti c’è un attacco vocale immediato e la composizione almeno per il primo minuto e mezzo vede il coinvolgimento di tutta la band, fino all’entrata in scena del flauto di Minnear che accompagna delicatamente la voce di Derek Shulman. Ancora una volta il gruppo dimostra di avere una solida formazione classica da cui attingere e di essere una delle band dall’approccio maggiormente colto del panorama inglese di quel periodo; è un breve passaggio però, perché il gruppo si ripropone da subito per intero e spicca in questo frangente la chitarra solista di Green, sempre preciso e vigoroso che riporta il brano alle sonorità iniziali. La coda finale è strumentale e il protagonista assoluto è ancora Green che si lancia in un coinvolgente solo di matrice blues. Chiude l’album The queen, una brevissima rivisitazione moderatamente dissacrante dell’inno nazionale britannico. (Luigi Cattaneo)

Giant (Video)




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