-Che effetto vi ha fatto tornare dopo 40 anni dal disco d’esordio?
P: Molto stimolante. Abbiamo ripreso l’attività alla Progvention 2010 del Bloom presentando pezzi vecchi e un paio di nuovi brani che poi sono finiti su AttoSecondo. Nel nuovo disco ci sono composizioni che già si trovavano in Dietro l’uragano ma sotto forma di provino. Abbiamo mantenuto la struttura ma completato le parti mancanti, il cantato, i testi . Inoltre abbiamo aggiunto due pezzi completamente nuovi che rispecchiano il nostro sound e continuano un discorso interrotto a metà. Questo disco è un ponte tra quello che eravamo nel 1973 e quello che siamo oggi, mantenendo la nostra identità per quello che sarà anche il successivo atto terzo, visto che abbiamo già del materiale, di cui una parte proviene da idee del passato e altre nuove che abbiamo già focalizzato.
-Avete quindi provini mai pubblicati e tenuti segreti tutti questi anni?
P: Diciamo che abbiamo una suite risalente al 1972 che dura 25 minuti da cui abbiamo attinto già per il primo album e per alcuni attuali. L’idea portante della suite è ancora intatta però e ci siamo ricordati a memoria di questo lungo brano e lo stiamo ricostruendo. Speriamo ci sia un bel seguito dopo AttoSecondo perché abbiamo ancora tanto da dire.
A: Il prog è ritornato un po’ in auge e quindi l’album può avere un suo seguito. Internet ha molto aiutato per la promozione, per la pubblicità e la comunicazione attraverso i tanti forum della rete e queste cose prima erano per pochi. C’è forse un ritorno al voler ascoltare e condividere musica fatta in un certo modo.
-Come avete lavorato sui brani presenti in AttoSecondo?
P: È sempre un lavoro d’equipe. Si arriva con un’idea e ci si lavora insieme.
A: Non c’è ostracismo dei membri vecchi. I pezzi sono nati da un’idea condivisa e piaciuta e da quel punto poi ci sono agganci con ciò che ognuno di noi può portare alla musica. Il sound Alphataurus predilige l’arrangiamento di gruppo, i solisti non sono in primo piano ma il brano nasce dall’unione di 6 teste che confluiscono per dare l’identità del gruppo. Gli arrangiamenti di tastiera li senti tali e quali dal vivo, non ci sono sovraincisioni, non avrebbe avuto senso fare un disco che non si poteva suonare live.
P: Questa è una caratteristica che avevamo anche nel primo album. Trasferimmo gli strumenti nello studio di registrazione e suonammo in diretta. Certo ci furono delle sovraincisioni, ad esempio di moog in Croma e per ottenere certi risultati dovevi fare un sacco di registrazioni e di pre mix. Inoltre avevamo utilizzato un 8 piste alla Sar di Milano e quello che facevamo in sala prove lo abbiamo portato in studio perché solo suonando insieme ottieni certe sfumature e certe cose che vengono fuori al momento.
-Avete riscontrato molte difficoltà nel tornare a lavorare su brani progressive dopo tanto tempo o la passione non si è mai persa per questo genere?
P: Ci sono stati periodi in cui ho suonato meno, pur avendo lavorato in studio con De Andrè e Riccardo Zappa. Negli ultimi dieci anni ho suonato pochissimo! Avevo parecchia ruggine addosso e anche i brani vecchi piano piano sono stati recuperati tecnicamente, soprattutto perché all’inizio le difficoltà sono state enormi ma con applicazione, studio e sacrificio c’è stato un ritorno.
-È stata una gestazione lunga quella che ha portato ad AttoSecondo?
P: Lunga ma non complicata! Non potevamo stare tutti i giorni in sala prove e poi c’è stato un cambio di line up con l’avvicendamento del batterista Giorgio Santandrea e i relativi provini che hanno portato alla scelta di Pacho Rossi. Chiaro che ha dovuto calarsi nella parte, ha assimilato il nostro sound arrivando dai Karma che suonano tutt’altro!
A: Ha modificato in parte la sua attitudine perché per suonare questa musica non occorre essere solo bravi o avere velocità ma serve anche feeling.
P: Il concetto importante è che avevamo pensato di prendere degli strumentisti per fare il disco ma così non funziona. Avevamo bisogno di qualcuno che ci stesse vicino anche a livello umano. Il prog nasce da qualcosa di spontaneo e il difficile sta proprio nel riuscire a dire qualcosa partendo da questo.
A: Ognuno ha un interpretazione diversa della musica, di un armonia che viene condivisa dagli altri membri del gruppo. Un feedback che arriva suonando, un’intesa che nasce attraverso le prove, anche le più strampalate!
P: Negli anni ’70 suonavamo tutti i giorni, ora le prove le registriamo tutte e da lì possiamo cogliere delle minime idee che poi verranno sviluppate. Bisogna ottimizzare i tempi ora!
-Quando e a chi è venuta l’idea della reunion?
P: Il primo responsabile è Guido Wasserman che mi martellava già 10 anni fa!
A: Io ho suonato con Guido negli ultimi anni in un gruppo di jazz fusion e quando è nata l’idea di una seconda tastiera negli Alphataurus mi è stato chiesto di entrare a far parte del gruppo. Mi sono dovuto fare una certa cultura perché ascoltavo giusto qualcosa degli Yes e dei Genesis, son sempre stato più vicino alla fusion o al jazz rock. Durante le prove c’è stata un’evoluzione nel mio modo di suonare e qualcosa di mio sono riuscito ad incastrare all’interno del disco.
P: Nel 2008 abbiamo iniziato a provare ma il bassista della prima formazione abita a Roma e Michele Bavaro, il cantante, in Puglia. Lui ha sempre cantato moltissimo, anche all’estero. Ha fatto una sua carriera dopo gli Alphataurus. All’inizio con noi c’era al basso il fratello di Giorgio, Giampaolo, ma tra fratelli non andò benissimo! Inizialmente non vi era un cantante, ne avevamo provato qualcuno e quando arrivò Fabio Rigamonti al basso portò Claudio Falcone alla voce. Lui ha una preparazione estrema e arriva dal blues e dal soul.
A: Riesce però a far convivere questa sua vena con i pezzi del disco e non solo.
P: Anche i testi sono suoi e ha centrato quello che volevamo dire già 4 anni fa come in Claudette. Si è calato alla grande nella parte!
A: Fabio invece ha suonato di tutto nella sua vita! Ha sempre ascoltato i gruppi storici del prog e ci ha messo del suo per creare una base ritmica solida, prima con Giorgio e poi con Pacho. Insieme ormai formano una sezione ritmica molto solida.
P: Nel 2008, quando abbiamo ricominciato, avevamo in testa un programma, quello di prendere nuovamente in mano i brani vecchi ma anche di scriverne di nuovi.
A: E poi suonare i vecchi brani va bene ma dandogli comunque un taglio moderno, proponendo qualche novità però!
P: Noi abbiamo voglia di proseguire il discorso interrotto 40 anni fa, quello che non siamo riusciti a terminare e soprattutto i giovani che stanno venendo ai nostri live pare lo abbiano capito.
-So che avete anche preparato un documentario per il disco…
P: L’idea del documentario ci è venuta dopo la Progvention del 2010 e si è materializzata grazie alla lacrima Pictures che ci ha seguito per mesi, a Genova e a Milano in sala prova per le interviste. Abbiamo poi trovato una vecchia Vhs del 1972, 3-4 minuti di video di preparazione ad un concerto a Monza che è stato inserito nel documentario.
-Il vostro primo disco è da più parti riconosciuto come uno dei più rappresentativi degli anni ’70 italiani. Possibile che in tutto questo tempo nessuno vi abbia proposto di incidere qualcosa di nuovo prima di ora?
P: Nessuno! Il disco originale fu ripubblicato dalla Vynil Magic nel 1992, poi con la Mellow facemmo Dietro L’uragano. Moroni mi chiese se avevo qualcosa di inedito. Avevo dei provini per me impubblicabili. Ci lavorai una ventina di giorni per renderli accettabili. Pensa che ha venduto 2400 copie!
-Come siete approdati in BTF?
P: Tramite la Vynil che poi con gli anni si è trasformata in BTF. Avevamo già questo aggancio insomma. Mathias Scheller ci contattò nel 2008 per farci fare qualcosa e da lì prima ripubblicammo l’esordio e poi andammo alla progvention e registrammo Live in Bloom.
-Avete un contratto per altri dischi con loro?
A: No, non abbiamo nessun contratto per eventuali album da pubblicare.
-Che riscontri sta avendo il disco?
P: Notevole direi. Dopo 3 settimane avevamo venduto già 500 copie, in Giappone 300 e abbiamo avuto un ordine per altri cd.
A: La BTF ci ha comunicato che non era mai successo che il Giappone ordinasse lo stesso titolo a distanza di così pochi giorni. Anche il live ha venduto bene, 1200 pezzi circa tra cd e vinile.
P: Abbiamo avuto un ritardo sul vinile perché la prima stampa era impresentabile. Avendo lavorato in Ricordi negli anni ’80 dove mi occupavo di produzioni interne e di master ho ripreso in mano il materiale e da lì abbiamo accumulato 1 mese di ritardo.
-Vi aspettavate tutto questo affetto del pubblico?
A: Il pubblico ha un attenzione particolare, si sente partecipazione e dai ancora di più. È emozionante.
-Parliamo un po’ dei vostri esordi. Come nasce la band?
P: La base del gruppo era a Sesto San Giovanni con Giorgio e Alfonso, il basso e la batteria. Io avevo un gruppetto di Monza, ma ci trovammo subito bene. Ovviamente bisognava creare musica nuova, non cover. Chiaro che con Guido e Michele, che era qui senza fissa dimora e veniva ospitato da noi, il gruppo prese piede. Eravamo ragazzini, 15-16 anni, avevamo un impresario che ci procurava gli strumenti e che ci aiutò parecchio. Iniziammo a fare i vari festival, Palermo, il Davoli di Reggio Emilia, i Palasport. Ci fu anche l’occasione di suonare di spalla agli Emerson Lake & Palmer ma causa problemi contrattuali internazionali saltò tutto ma seguimmo ugualmente il loro tour a Bologna, a Genova e approfondimmo la conoscenza. Peccato, ci accontentammo del backstage! Si suonava spesso al Carta Vetrata di Bollate, che era un punto di riferimento. Lì ho conosciuto Red Canzian quando suonava ancora con i Capsicum Red, prima di entrare nei Pooh. A Palermo, al Politeama suonammo con i New Trolls e i Latte e Miele e fu lì che Vittorio De Scalzi ci offrì la possibilità di incidere con la Magma, l’etichetta che aveva appena fondato. Al Cavalluccio Marino di Viareggio suonammo anche con i Van Der Graaf Generator. Ora la situazione è disastrosa, o riesci a far riempire il locale con le cover oppure diventa molto difficile. I gestori dei locali di norma sono quindi sulla difensiva, è comprensibile. Però ci sono realtà diverse come l’Honky Tonky di Seregno dove abbiamo fatto una data con la FEM e il locale era pieno e Il Giardino a Lugagnano. Chiaro che gli impegni live però non abbondano.
A: E quindi approfittiamo di questi buchi quando non ci sono concerti in vista per provare i pezzi nuovi.
-Le tastiere erano uno dei punti di forza del vostro suono, tra Emerson e Auger. Quali avevi usato?
P: Base portante era l’Hammond 111 con tastiere da 3 ottave e mezzo e due Leslie con doppi comandi e quindi 2 velocità. Poi piano elettrico Crumar, un minimoog, un Wurlitzer elettrico, un eminent 310 per i violini. Insomma mi serviva un camion solo per me! Anche ora il set up minimo non è da poco, non sono ancora soddisfatto totalmente. Dovrei viaggiare con un Hammond vero! Ora sto utilizzando il minimoog Voyager è un analogico con controllo digitale ed è un gran bello strumento.
-L’artwork del disco è uno dei più quotati del prog. Com’è stata ideata?
P: La copertina è di Adriano Marangoni, un pittore ancora in attività che conoscemmo a Brugherio da amici comuni. Pensa che non sappiamo più dov’è l’originale!
A: Secondo me ai tempi si voleva comunicare anche graficamente, far capire che c’era un messaggio non solo di suono. La ricerca di qualcosa di particolare, pensa ai Garybaldi.
P: Era normale ai tempi puntare su copertine e fotografie.
A: Anche l’artwork di Live in Bloom è di Adriano e rappresenta una rinascita e pure quello nuovo è suo! Racconta quello che c’è nel disco, quello che rappresenta.
-Come si arrivò allo scioglimento della band?
P: Ci furono un paio di episodi che ci portarono alla scelta definitiva. Economicamente non si stava benissimo, poi ci fu il servizio militare per me, Michele tornò in Puglia. Insomma, dovemmo lasciare tutto in sospeso. Poi ci fu un cambio generazionale e arrivò Barry White! I cantautori non c’entrano nulla.
A: Anche le etichette discografiche iniziarono ad abbracciare nuovi stili e non dimentichiamoci che c’era una tensione sociale differente. Gli anni ’80 sono segnati anche da una leggerezza diversa. La nascita dei video, le radio commerciali e l’immagine diventano fondamentali.
-Cosa hai fatto dopo Pietro?
P: Fino al 1983 ho lavorato in Ricordi facendo il produttore interno e il musicista in studio con Battiato nell’album L’arca di Noè e con De Andrè in L’indiano. Ho seguito la registrazione del disco live di De Andrè con la Premiata, curai il mix con Mussida e Piero Bravin al Mulino di Milano. Poi Nannini, Milva. Dopo il 1983 mi sono occupato di tecnologia a livello musicale. Su disco ho fatto qualcosa con Alice ma mi son sempre più occupato della parte tecnica.
-Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
-P: Stiamo mettendo giù materiale per il disco nuovo e poi cercare date per suonare in Italia, anche se non è affatto semplice. Ci piacerebbe suonare in Giappone, in Olanda, in Belgio, luoghi dove abbiamo tante richieste.