martedì 27 febbraio 2018

FERONIA, Anima Era (2017)


I Feronia sono un quartetto di Torino nato nel 2015 grazie alla volontà di Elena Lippe (voce), Fabio Rossin (chitarra), Daniele Giorgini (basso) e Fabrizio Signorino (batteria) e alla loro passione per l’heavy metal e il progressive dai tratti epici. Tecnica e melodia si sposano all’interno di un debut improntato su una forma canzone strutturata, in cui spiccano i riff di Rossin, la voce della brava Lippe e una sezione ritmica decisamente compatta. Un occhio di riguardo i Feronia lo hanno avuto per i testi (opera della vocalist), in quanto le liriche si ispirano ad una visione ecologica che sceglie di vedere l’essere umano come parte di un delicato ecosistema di cui tutti siamo chiamati a prenderci cura e non meno importante risulta la scelta del monicker (Feronia fa parte del pantheon delle Dee Italiche) per definire al meglio il progetto del gruppo. L’inizio è assolutamente meritevole, Priestess of the ancient new è l’opener perfetta per introdurci nel mondo dei torinesi, subito raddoppiata da Atropos, pezzo in cui Rossin si esalta tra riff e soli. Al limite del thrash (ricordando anche alcune cose degli Eldritch) risultano la debordante Wounded healer e l’aggressiva Garden of sweet delights, due momenti intensi e piuttosto potenti, mentre Humanist con i suoi sette minuti si avvicina maggiormente al metal progressivo. Flee flight e Innocence sono più classicamente heavy, pur non dimenticando di instillare spore prog ma di buonissimo livello sono anche le massicce Depths of self delusion e Exile, irruenti ma con pathos. Thumbs up! è il momento più particolare, si avvicina al crossover ma si apre ad un breve frangente dal sapore fusion, prima della conclusiva e battagliera A new life. Anima era è un bel prodotto e conferma la passione dell’Andromeda Relix nel ricercare ensemble di valore (a prescindere dal genere) e per di più italiani, un attenzione che andrebbe decisamente premiata da parte del pubblico. (Luigi Cattaneo)
 
Priestess of the ancient new (Video)
 

lunedì 26 febbraio 2018

THE FORTY DAYS, The Colour of Change (2017)


Ultimamente la toscana ci sta regalando band prog rock davvero interessanti e dopo Spettri, Basta! ed Eveline’s dust (giusto per fare qualche nome), ecco la volta dei The Forty Days (Giancarlo Padula alla voce e alle tastiere, Dario Vignale alla chitarra, Massimo Valloni al basso e Giorgio Morreale alla batteria), quartetto tra i più apprezzabili del 2017 appena trascorso. I sette brani di The colour of change mostrano davvero un songwriting di tutto rispetto, che punta molto sul pathos, con un occhio attento all’aspetto emotivo e melodico, un debut che risalta un gruppo dalle tante doti e già piuttosto maturo. L’unione di rock settantiano, psichedelia e new prog ricalca le trame care ai maestri Pink Floyd (soprattutto nel fine lavoro di Vignale), ai Marillion post Fish e ai maggiormente contemporanei Porcupine Tree e Anathema, in special modo per quella capacità di strutturare situazioni fortemente comunicative ed emozionanti. Veramente una piccola perla questa targata Lizard Records, un concept molto sentito che descrive i pensieri e le paure di un trentenne nella complicata società attuale, manifestando idee ispirate e interessanti per tutta la sua durata. La partenza di Looking for a change è piuttosto floydiana, andando a toccare anche brillanti sezioni neo progressive, così come la strumentale Uneasy dream pone l’accento sulle qualità tecniche del gruppo. The Garden e i nove minuti di Homeless sono tra le tracce più belle del platter, contrassegnate da eleganza, suoni sospesi, note lunghe ammalianti, parti strumentali e cambi di tempo. Molto buone anche John’s pool col suo perfetto crescendo e Restart, tra Pink Floyd e i tedeschi RPWL (con cui hanno in comune svariate influenze d’altronde). La lunga Four years in a while non ha fatto altro che confermarmi l’impressione di trovarmi dinnanzi ad uno dei lavori migliori che mi è capitato di ascoltare nel 2017. (Luigi Cattaneo)
 
The garden (Video)
 

venerdì 23 febbraio 2018

DANIELE VETTORI & THE BRILLIANT CORNERS, 15 Steps (2017)


Debutto per Daniele Vettori (chitarra) e The Brilliant Corners (Claudio Giovagnoli al sax, Nicola Cellai alla tromba e al flicorno, Gianni Pantaleo al piano e ai synth, Andrea De Donato al basso e al contrabbasso e Giuseppe Bonanno alla batteria), sestetto che firma con 15 Steps un platter pieno di grazia ed eleganza, intriso di raffinato jazz proprio come uno dei capolavori di Thelonious Monk, quel Brilliant corners del lontano 1957, che qui condivide col progetto dei toscani la voglia di proporre brani originali e un bel interplay tra i fiati (anche se sul lavoro di Monk era tra i sax di Ernie Henry e Sonny Rollins e non era presente la tromba). Gli ascolti dei grandi del passato vengono fuori in un album suggestivo, capace di toccare punte vibranti in odore di jazz rock ma anche atmosferiche parti fusion mirabilmente intrise di melodia. I dieci brani non hanno particolari cali (nemmeno quando si stacca l’elettricità, come nei due episodi conclusivi nati da una session acustica), risultano tutti piuttosto dinamici e gradevoli, pregni di complessità ritmiche e soli ispirati. La band non è alla ricerca di motivi innovativi e mantiene ben salde le radici della tradizione, sviluppando un suono pieno e non privo di virtuosismi, con temi sostenuti e curati sotto ogni punto di vista. Filologicamente inattaccabili, anche grazie ad una prova corale matura, il gruppo dà l’impressione di poter essere ancora più convincente in sede live, forse per via di una certa flessibilità che si evince tra le pieghe del disco. Pur avendo a che fare con composizioni di non semplice esecuzione si respira un’aria leggera, briosa, per via di una certa fluidità di fraseggio e di interplay che accompagna gli interpreti. Energia e classe camminano appaiate e raccontano di un album di ottimo livello, che mi sento di consigliare a tutti gli amanti del jazz. (Luigi Cattaneo)
 
15 Steps (Full Album)
 

martedì 20 febbraio 2018

HESPERIA, Caesar-Roma Vol.1- (2017)


Sesto album per il solo project Hesperia, che con Caesar-Roma Vol.1- propone un concept sulla vita e sulle gesta di Giulio Cesare, un disco che ha il taglio della Rock Opera e che non disdegna interessanti atmosfere cinematografiche, complice l’argomento che ben si presta a certe dinamiche. L’heavy metal ottantiano è il background principale del progetto, con soluzioni a volte più attuali e marziane, a volte maggiormente vintage e accostabili anche al prog, con le liriche, divise tra italiano e latino (con tanto di pronuncia antica) che rivestono un ruolo non secondario nello svolgimento narrativo. Un percorso iniziato vent’anni fa dopo la dipartita dai black metallers Sulphuria (di quel periodo rimane qualche sfuriata blast beat non riuscitissima) e che si contamina di epic e folk metal, facendo trapelare una certa dose di ambizione, che non sempre trova riscontro nelle idee messe sul piatto. Il disco è comunque discretamente convincente per tutta la sua durata, complice uno studio della materia davvero inappuntabile che trova sfogo in un suono potente e oscuro e la passione dell’autore nel trattare l’argomento. Forse gli arrangiamenti non sempre esaltano le strutturate sezioni del platter, che potrebbe giovare di un approccio differente a questo fondamentale processo, seppure ho notato delle migliorie innegabili rispetto al recente passato. Gli spunti intelligenti d’altronde non mancano, basti ascoltare la gradevole Roma, in cui la voce di Hesperia (che ricorda qui quella di Piero Pelù) si scontra con quella di Ant (Frentrum, Orcrist) votata al black metal, la title track che si avvicina ai Rammstein o la conclusiva Ivlivs Caesar (Divvs Et Mythvs), introdotta da The ides of march degli Iron Maiden, band che pare essere uno dei riferimenti principali di Hesperia. È giusto inoltre sottolineare l’atmosfera gallo-celtica e l’utilizzo della crotta nella folkeggiante De bello gallico, quella misteriosamente egizia di Aegyptvs (Tema di Cleopatra), in cui il melodramma è reso efficacemente dal duetto tra il tenore Christian Bartolacci (Ibridoma, Scala Mercalli), la cui voce è stata registrata nella splendida Arena Sferisterio di Macerata e la soprano Aeretica (Amethista). Di buon livello anche la strumentale Britannia capta erit/Alea iacta est e la ballad Divini praesagii, pezzi dove probabilmente una produzione leggermente migliore sarebbe risultata importante per dare più sostanza ad un progetto curioso e che giunge con Caesar (Roma Vol.1) ad un capitolo spartiacque, che deve divenire un nuovo punto di partenza in vista dei prossimi episodi, in cui il marchigiano può giungere a definitiva maturità artistica e magari abbandonare l’underground che abita da due decenni. (Luigi Cattaneo)
 
Official Trailer Album 
 

martedì 13 febbraio 2018

JAW BONES, Wrongs on a right turn (2017)


I greci Jaw Bones (George Cobas alla voce, Jelly Nano e Bill alle chitarre, Mike Tzoumas al basso e George Matsoukas alla batteria) sono un quintetto pressoché sconosciuto in Italia che unisce umori grunge, potenza stoner e bordate heavy metal, un sound in cui ritroviamo il mood di Palm Desert e in controluce passaggi psichedelici che donano un tocco di melodia ad un album decisamente pesante. Wrongs on a right turn (uscito lo scorso settembre per la Sliptrick Records) è quindi un disco contaminato pur affondando le radici in certo stoner di matrice heavy e i diversi elementi che si riescono ad estrapolare da un attento ascolto mostrano un ensemble tecnicamente formato, che punta molto su groove e impatto e fa emergere con disinvoltura un background solido. Communication è il classico inizio di un album con certe coordinate e quindi non si risparmia in quanto a forza e attitudine. Non che Disciple sia da meno e risulta greve e diretta, mentre con Ego tripper i greci decidono di virare verso un grunge influenzato dagli Alice in Chains più energici e da quel Degradation Trip di Jerry Cantrell (linee guida che emergono qua e là durante l’ascolto complessivo a dire il vero). Don’t bring me down è un altro buon momento di vigoroso stoner, così come Fear è un deciso passaggio in territori heavy, materia che la band maneggia con una certa destrezza e che qui viene sostenuta dall’ospitata di Androniki dei Chaostar alla voce. La valida Sugar daddy e la robusta The ride to nowhere, anticipano Should know better (vicina ai Clutch e ai Dusteroid) e soprattutto la lunga Song of the nightingale, che con i suoi intarsi psichedelici mette in luce un lato interessante e che potrebbe essere maggiormente sviluppato in futuro. Wrongs on a right turn è un platter non per tutti, dall’approccio cupo e viscerale, non lascia spazio a momenti ariosi o particolarmente suggestivi, con gli ellenici che hanno preferito puntare su aggressività e impeto per buona parte della sua durata, risultando comunque convincenti seppure a volte eccessivamente monocordi. (Luigi Cattaneo)
 Sugar daddy (Video)


mercoledì 7 febbraio 2018

RAINBOW BRIDGE, Dirty Sunday (2017)


Attivi dal 2006 i Rainbow Bridge portano avanti con orgoglio lo spirito e l’attitudine di Jimi Hendrix, lasciandosi guidare dal chitarrista mancino in territori tanto blues quanto intrisi di rock psichedelico. Non solo tributo ma anche libera interpretazione e improvvisazione di quei suoni immortali, il trio di Barletta (Giuseppe Piazzolla alla chitarra, Fabio Chiarazzo al basso e Paolo Ormas alla batteria) dopo anni di attività e centinai di concerti, decide di chiudersi in studio (per l’esattezza lunedì 23 ottobre 2016) e di jammare senza sosta. Ne viene fuori Dirty Sunday, cinque tracce per un totale di 35 minuti di desert rock, heavy blues e psichedelia, un concentrato di Experience hendrixiana, Cream ed Eric Sardinas, un trip strumentale registrato live e senza overdubs che ho amato sin dalle prime note, quelle di Dusty, in cui c’è già tutto il mondo del gruppo, tra asperità stoner, giri blues, ritmiche decise e soli di chitarra sovraccarichi di elettricità. La title track conferma tutte le sensazioni, un cavallo in corsa a briglie sciolte, una jam furibonda in cui si respira l’aria di fine anni ’60, quella a cavallo tra Electric ladyland e Band of Gypsys (per il sottoscritto quest’ultimo è uno dei più grandi trii della storia della musica). Maharishi suite parte lenta, con Piazzolla in prima linea sostenuto dal duo ritmico, per poi esplodere con forza per quasi dieci minuti lisergici, in cui il blues e la psichedelia vanno a braccetto senza alcun freno. Hot wheels è il brano meno dilatato del platter ma non per questo inferiore agli altri, anzi, è un rock blues tirato e potente, che vive di break più morbidi in cui il trio mostra quanto sono bravi anche quando c’è da decelerare. Il finale di Rainbow bridge compatta le escursioni hendrixiane con il desert rock e chiude un primo lavoro fantasioso e assolutamente riuscito. (Luigi Cattaneo)
 
Dirty Sunday (Full ep)
 

martedì 6 febbraio 2018

VINNIE JONEZ BAND, Nessuna cortesia all'uscita (2017)


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La Vinnie Jonez Band si forma tre anni fa a Palestrina (Gianluca Sacchi alla voce e alla chitarra, Marco Cleva alla chitarra e alla voce, Ludovico Gatti al basso e Andrea Ilardi alla batteria) unendo la passione per lo stoner, il grunge e l’heavy rock. Dopo l’ep Supernothing del 2015 ecco il full lenght Nessuna cortesia all’uscita, esordio davvero esemplare e giocato sull’interplay tra le due chitarre e una sezione ritmica che riveste un ruolo fondamentale nel sostenere con precisione le fitte trame che compongono il lavoro. Ciò che ne esce fuori è un crossover greve, autorevole, immediato, suonato egregiamente e con tante idee messe sul piatto, figlio della loro passione per band come Queen of the Stone Age, Karma to burn e Mastodon. Polvere è l’inizio burrascoso che è lecito aspettarsi, una botta di adrenalina da ascoltare ad alto volume ma non sono da meno Silenzio e Vipera, tra sature distorsioni e passaggi strumentali in vena di stoner psichedelico. Corri rievoca il Palm Desert di qualche decennio addietro, prima della breve pausa strumentale di Supernulla che apre lo spazio per l’ipnotica Idolum, un brano con una coda strumentale psych di notevole fattura. Bellissima anche Sangue, con quel riff così poderoso che abbraccia tutta la song, mentre in Mi chiamo fuori il quartetto si avventura in un finale di stoner strumentale che è uno dei trademark che caratterizzano il platter. Conclusione affidata a Nessuna cortesia, perfetto epitaffio di un album ottimo sotto tutti i punti di vista e che non può che fare la felicità di chi non ha dimenticato le escursioni sonore di ensemble grandiosi come Kyuss e Nebula. (Luigi Cattaneo)
 
Silenzio (Video)
 

SUPERHORROR, Hit Mania Death (2017)


Si può suonare dell’horror rock pur essendo un gruppo made in Italy? A giudicare dai recenti lavori di Raging Dead, Dead & Breakfast e di questi Superhorror la risposta è assolutamente sì. Il quartetto (ex Superhorrorfuck) disegna contorni intrisi di ruvidezza, melodie immediate e ironia, risultando tanto provocatori quanto catchy. Edward J. Freak (voce), Mr.4 (basso), Didi Bukz (chitarra e kazoo) e Franky Voltage (batteria) siglano con Hit mania death un quarto disco condito di hard & heavy, r’n’r dissacrante e atteggiamento punk rock, sempre tenendo ben presente l’aspetto canzonatorio e beffardo. Ready, steady … Die! è la partenza simbolo del platter, aggressiva e sporca al punto giusto, mentre le seguenti Nazi nuns from outer space e Mr. Rigor Mortis hanno quel mood punk fatto di chitarre abrasive e ritmiche solidissime. Ed Wood Blues (il riferimento potrebbe essere al film di Tim Burton del 1994) è un omaggio, a modo loro, alla musica del diavolo per eccellenza, prima di No love for the deceased e della ballata Dead to be alive a cui ha partecipato Emily Van Dark alla voce, due episodi sicuramente gradevoli. Si riparte con l’anthemica Rock is dead (like us) e l’ottantiana e tirata Nice to meat you (da applausi i trascinanti cori) ma l’heavy è dietro l’angolo e si manifesta nella robusta Little scream queen. Ci si avvicina alla conclusione con la pungente Mourir, c’est chic, la potente Selfish son of a witch e la melodia ruffiana di Nekro-Nekro Gym, che chiude un come back che conferma la capacità della band di non prendersi troppo sul serio pur facendo sul serio, una caratteristica che li consacra come uno dei più gruppi più gradevoli del panorama rock nazionale. (Luigi Cattaneo)
 
Nekro-Nekro Gym (Official Video)
 
 
 

sabato 3 febbraio 2018

ATHLANTIS, Metalmorphosis (2017)


Nati nel 2003 per volontà di Steve Vawamas (bassista già per Mastercastle, Ruxt, Bellatrix e Shadows of steel), gli Athlantis forgiano un sound intriso di power metal, rispettoso dei canoni estetici codificati prima da Halloween e Gamma Ray e poi conosciuti in tutto il mondo, Italia compresa (con alcuni esponenti di spicco come Labyrinth e Rhapsody of fire). L’attuale Metalmorphosis è in realtà un album del 2008 che non ha mai visto la luce ed è stato registrato e arrangiato nuovamente, una versione inedita a cui hanno partecipato Alessio Calandriello (voce dei La Coscienza di Zeno e Lucid Dream), Tommy Talamanca (chitarrista e tastierista dei Sadist) e Alessandro Bissa (batterista che ha militato nei Labyrinth e nei Vision Divine), oltre che ovviamente Vawamas. Il platter si apre con un ottimo trittico: l’iniziale Delian’s fool riporta indietro nel tempo, a fine anni ’90, quando il genere conobbe una grande esplosione in termini di qualità e popolarità (con un affollamento forse eccessivo), ricordando in parte il sound dello storico Return to heaven denied. Grande protagonista è Talamanca nella potente Battle of mind, mentre Wasted love si muove su coordinate tipicamente power. Curiosa Nightmare, il brano dove ci si allontana di più dalle caratteristiche sinora espresse, per via di un’aggressività non comune a cui partecipa con enfasi Trevor, voce degli straordinari Sadist. Devil’s temptation torna su binari maggiormente canonici, pur mantenendo una discreta carica supportata da tecnica e pathos. La buona ballata Angel of desire vede altri due ospiti, Stefano Galleano dei Ruxt alla chitarra e Laura Gioffrè alla voce, brava nel duettare con Calandriello. No fear to die oscilla tra parti sostenute e frangenti più controllati, mostrando le doti di scrittura dei liguri, prima che il power prog faccia capolino tra le note di Resurrection. La vera chiusura del platter è affidata ad una cover, Tragedy dei Bee Gees, che con la partecipazione di Roberto Tiranti (Labyrinth, New Trolls, Wonderworld) diviene un episodio power a tutti gli effetti e sigilla questo disco che sarebbe stato un peccato lasciare nel dimenticatoio. (Luigi Cattaneo)
 
Battle of mind (Video)
 

HOLYPHANT, Holyphant (2017)


Gli Holyphant sono un power trio nato nel 2013 (Mr.Fab alla batteria, Bale alla chitarra, al sitar, alla synth guitar e alla voce e Theo al basso e ai synth) con l’intento di rendere omaggio tanto all’hard settantiano dei Deep Purple, quanto al doom primordiale dei Black Sabbath. Ben presto le influenze aumentano e in questo omonimo disco (dopo due interessantissimi ep) fanno capolino vibranti incursioni psych, parti grunge (con riferimenti non so quanto voluti ai primi Soundgarden) e soprattutto le caratteristiche movenze stoner sinora sempre presenti nel progetto. L’album si apre con la psichedelica Hallucinations, un brano che mostra alcune coordinate tipo del sound dei veneti, in bilico tra possenti distorsioni e frangenti più delicati. Affonda nello stoner A new omen, un pezzo dalla struttura poderosa ed energica come vuole la tradizione del genere. La buonissima Beholders of time è un'altra cavalcata segnata dai riff di Bale, sempre impregnati di potenza e grande vitalità, così come importanti risultano le ritmiche articolate da Mr.Fab e Theo e l’atmosfera settantiana che si respira, background di partenza da non sottovalutare. Stupenda la lunga The shipwreck, catarsi di stoner psichedelico e con buone parti strumentali, mentre Life denied spinge verso territori hard, suoni che gli Holyphant manipolano alla grande. Continua sulla stessa falsariga The matriarch, prima di Mystical dimension, che si avvale di una coda strumentale di grande presa e Forgiveness, una ballata crepuscolare di sicuro effetto. Finale affidato a The cellar, summa del pensiero creativo della band e ottima conclusione di un primo full lenght di buonissima fattura, con più ingredienti al proprio interno e tutti amalgamati con cura tra di loro, tanto che sarebbe davvero un peccato lasciare confinato nel solo underground (magari pure locale) un prodotto così intriso di capacità e idee. (Luigi Cattaneo)
 
Life denied (Video)
 

venerdì 2 febbraio 2018

TRIO QUATER, Trio Quater (2017)

Risultati immagini per trio quater

Dischi in cui le protagoniste uniche sono le chitarre mi hanno indotto sempre un po’ di curiosità mista alla voglia di scoprire se oltre il virtuosismo ci fosse la capacità di comunicare qualcosa. Certo lo storico trio Di Meola, McLaughlin, De Lucia insegna che ciò è possibile ma non mancano altri esempi lungimiranti come il California Guitar Trio, El guitarrazo firmato Salinas, Tomatito e Gonzales o ancora il Naxos Guitar Trio. L’ambito in cui si muovono è chiaramente di pura estasi per gli amanti delle sei corde, un po’ meno per chi magari dalla musica cerca tutt’altro. Luca Brembilla, Jonathan Locatelli e Marco Pasinetti si contraddistinguono per valenza tecnica ma anche per gusto verso melodie gentili e sognanti. I virtuosismi dei tre sono sempre congeniali alla loro visione musicale, fatta di un interplay ovviamente costante in cui ritroviamo temi del blues, delicatezze folk e armonie che giocano col pop sofisticato. Tutti i brani sono intensi e vivono di atmosfere incantate, hanno tra i riferimenti non solo gli ensemble sopracitati ma anche la scuola acustica italiana di autentici fenomeni come lo straordinario Beppe Gambetta, facendo proprio come loro della cura al particolare un vero vanto artistico. L’alternanza di parti solari con altre che paiono un tributo alla nostalgia ha la costante della capacità espressiva del gruppo di essere perennemente intenso e vellutato, doti che non vengono meno neanche quando si confrontano con Asturias del maestro catalano Isaac Albeniz in maniera encomiabile. Disco suggestivo e di grande pathos. (Luigi Cattaneo)
 
Para ti (Video)
 

giovedì 1 febbraio 2018

HYPERION, Dangerous days (2017)


Nati pochi anni fa a Bologna, gli Hyperion non sono proprio dei novelli e annoverano  esperienze più o meno significative nell’underground heavy nazionale (Davide Cotti e Luke Fortini alle chitarre, Michelangelo Carano alla voce, Giacomo Ritucci al basso e Marco Beghelli alla batteria). Tutto ciò si sente eccome dall’ascolto di questo bel debut, Dangerous days, un riuscito lavoro a base di heavy metal con spunti thrash, classico in ogni suo aspetto ma incisivo e parecchio energico per tutta la sua durata, rispettando quelli che sono i canoni di un genere che resiste nel tempo e ha il suo zoccolo duro di fan. Il sound è quindi frutto di una passione lontana, un omaggio ai mostri sacri sostenuto da doti strumentali di rilievo, che colpiscono soprattutto nelle folate dettate dal duo di chitarre, sicure nel loro intrecciarsi in un caldo flusso sonoro. Il platter si dipana tra strutture epicheggianti made in USA, sparate heavy vicine agli Jag Panzer, NWOBHM e la furia del thrash metal anni ’80, un concentrato di old school che è summa delle parti e che contraddistingue un esordio davvero interessante per gli amanti del genere. Ovviamente chi cerca novità di sorta rimarrà deluso ma la qualità complessiva mediamente alta è l’ottimo biglietto da visita di questo quintetto, bravo nel coniugare melodia, tecnica e potenza. Gli Hyperion sono l’ennesimo esempio della partecipazione che anima l’Italia nei confronti di queste sonorità, confermando come il sottobosco sia pieno di act con potenziale e grandi capacità. (Luigi Cattaneo)
 
Dangerous days (Video)
 

CONCERTI DEL MESE, Febbraio 2018

Venerdì 2
·J. Tull Benefit Tribute Band a Milano

Sabato 3
·The Watch a Genova
·Supper's Ready a Todi (PG)
·Power Prog Festival a Roma
·Spettri a Scandicci (FI)
·Feronia+Dark Ages a Collegno (TO)
·Malus Antler a Trebaseleghe (PD)

Mercoledì 7
·Runaway Totem a Marghera (VE)

Venerdì 9
·Steven Wilson a Milano
·IQ a Fontaneto d'Agogna (NO)
·Goblin Rebirth a Torino
·Revelation a Roma

Sabato 10
·Steven Wilson a Roma
·Gabriel Knights a Roma

Martedì 13
·Icefish a Milano

Mercoledì 14
·Icefish a Vicopisano (PI)


Venerdì 16
·Icefish a Taranto
·La Villa Strangiato a Roma
·Nathan + Il Cerchio d'Oro a Savona
·Sophya Baccini's Aradia a Cardito (NA)
·Massimo Giuntoli a Siena

Sabato 17
·Tazebao a Scandiano (RE)
·Icefish a Marcellinara (CZ)
·La Villa Strangiato a Lugagnano (VR)
·Ozone Park a Capoterra (CA)
·Alviti/Papotto a Roma

Domenica 18
·Icefish a Palermo
·O.A.K. a Roma

Mercoledì 21
·Claudio Simonetti's Goblin a Bologna
·Napoli Centrale a Udine

Giovedì 22
·Massimo Giuntoli a Milano
·Lincoln Quartet a Roveredo in Piano (PN)
·Dusk e-B@nd a Marghera (VE)
·Claudio Simonetti's Goblin a Bologna

Venerdì 23
·Eveline's Dust + Fungus Family a Genova
·Claudio Simonetti’s Goblin a Seregno (MB)
·Perspectives Of A Circle a Roma

Sabato 24
·Dyesis a Lugagnano (VR)
·Coscienza di Zeno + Universal Totem Orchestra a Genova
·Venegoni & Co.+ Möbius Strip alla Casa di Alex di Milano
·Psicotaxi a Turbigo (MI)
·Arturo Stàlteri a Cagliari

Domenica 25
·Syncage a Vicenza

Mercoledì 28
·Perfect Pair a S. Giovanni Lupatoto (VR)