lunedì 29 dicembre 2014

MÈSÈGLISE, L'assenza (2013)


Esordio per i Mèsèglise, band a cavallo tra folk, cantautorato e progressive, nata da un’idea di Paolo Nannetti (autore di parole e musica, nonché tastierista e fisarmonicista della formazione), Marco Giovannini (voce dei Sithonia) e Maurizio Lettera (batteria). L’assenza è un album che in realtà ha pochi punti di contatto con il prog e che mira a colpire l’ascoltatore soprattutto attraverso una scrittura semplice e scevra da eccessi ma non per questo banale o scontata. Giovannini si stacca da quanto fatto con i veterani Sithonia per affrontare un percorso più lineare, senza orpelli e molto melodico. Qualche spunto prog inevitabilmente si palesa nel tocco tastieristico di Nannetti e in qualche frangente strumentale cucito all’interno della forma canzone ma il tutto è riconducibile ad un gradevole folk cantautorale che probabilmente non attirerà l’attenzione dei progster più accaniti. L’iniziale 16 Marzo spiana la strada e non lascia adito a fraintendimenti, con tanto di chorus di facile presa. La title track ha una lieve vena malinconica, mentre ha un mood più progressivo Il Fiore e la Finestra. Ottima l’atmosfera nostalgica di Stelle di Lefkos, il break simil prog di Sole in città e la suadente classicità di Così è stato. Più leggera ma comunque piacevole è F.T.M., ma è solo un momento prima della cantautorale La risposta e delle oscure La fotografia e Trasparenze. Chiudono il lavoro con garbo Un ottimo atleta e la breve Mare di cartone, due momenti delicati e soavi, un po’ come tutto il disco. L’assenza è un album indirizzato soprattutto a chi ama il cantautorato e pone attenzione all’aspetto testuale e non solo a quello musicale, qui comunque curato, soprattutto in fase di arrangiamento e nella scelta dei suoni. Un applauso anche alla Lizard, sempre attenta nello scoprire e dare spazio a piccole e meritevoli realtà. (Luigi Cattaneo)

Trasparenze (Live)

venerdì 26 dicembre 2014

DROPSHARD, Silk (2014)


Il ritorno dei Dropshard non tradisce le attese e glorifica ancor di più questo 2014 all’insegna delle tante e valide uscite progressive che si sono verificate. I giovani gruppi italiani non stanno a guardare e attingendo dall’ampio serbatoio che questo genere crossover per eccellenza ha in sé, sfornano dischi spesso di valore e ben suonati che avrebbero bisogno solo di una distribuzione ad ampio respiro (una probabile utopia…). Non fanno eccezione i brianzoli, che dopo il bel debut del 2011 tornano a muoversi su quella linea di demarcazione dove si incontrano l’art rock settantiano, il new prog, la psichedelia e il progressive metal (anche se in maniera minore). Questo succulento come back autoprodotto è la riprova di quanto appena detto. I Dropshard sono cresciuti ulteriormente, hanno imbracciato un suono ancor più al passo coi tempi senza rinnegare le profonde radici anni ‘70 e, cosa da non sottovalutare, hanno ancora margini di miglioramento. Nella musica del quintetto è possibile ritrovare Yes e Genesis, i Marillion post Fish, gli Spock’s Beard e i Porcupine Tree, in un percorso emozionale e d’impatto, dove la componente melodica e suggestiva delle composizioni non viene mai meno e sembra prevalere sull’aspetto meramente tecnico. Valerio De Vittorio (tastiere), Alex Stucchi (basso), Enrico Scanu (voce, chitarra e flauto), Tommaso Mangione (batteria) e Sebastiano Benatti (chitarra), firmano un opera seconda maggiormente a fuoco, ricca di coloriture e figlia di un lungimirante lavoro d’insieme. La triade iniziale formata da Insight, Eyes e Cell 342 è la sintesi del Dropshard pensiero: solidità ritmica, intarsi psichedelici, vibranti spunti chitarristici, le tastiere sullo sfondo che addobbano con passaggi caldi e suadenti. Memento è la straordinaria suite che chiude l’album, un piccolo gioiello piena di momenti suggestivi, sinfonici e ben calibrati. In mezzo brani comunque di buon livello come Perpetual Dream e soprattutto The Endless Road, altra long track in cui emerge la vena compositiva della band e qualche piccolo omaggio a Pain of Salvation e Riverside. Silk è la conferma del talento del gruppo che già era emerso con nitidezza in Anywhere but Home (recuperatelo!) e che consegna sul finire dell’anno uno dei progetti più interessanti del 2014. (Luigi Cattaneo)

Memento (Video)

         

mercoledì 24 dicembre 2014

FERDINANDO FARAÒ & ARTCHIPEL ORCHESTRA, Play Soft Machine (2014)


Avvicinarsi alla musica dei Soft Machine, interpretarla in modo personale e convincente, arricchirla senza snaturarla, portandole rispetto ma non soggezione. Facile a dirsi, un po’ meno pensare di raggiungere l’obiettivo senza avere alle spalle una solida preparazione e una buona dose di coraggio e determinazione. Diventa forse più semplice toccare il traguardo se l’avventura viene sostenuta da un’orchestra formata da musicisti di varia estrazione ma accomunati da un forte spirito sperimentale. L’Artchipel Orchestra guidata da Ferdinando Faraò mostra di non aver paura di affrontare il repertorio di Hugh Hopper e compagni e pubblica il nuovo album per Musica Jazz (primo canale di distribuzione ma il disco si può richiedere anche alla pagina facebook del gruppo). Faraò si è accerchiato di grandi professionisti e ha creato un ensemble rodato e capace di omaggiare i Soft Machine senza cadere in banalità di sorta, facendo convivere Canterbury, il jazz rock e i grandi passaggi strumentali di cui erano pieni i dischi nei ’70, amalgamando il tutto con un fine ma ferreo lavoro orchestrale di ben 27 elementi (anche se non sempre tutti presenti). Un preludio collettivo e free apre il disco e la seguente Facelift si denota da subito per un tris di soli di Alex Sabina al sax soprano, Massimo Giuntoli all’organo e Paolo Botti alla viola, ben coadiuvati dall’operato dell’orchestra. Spicca anche Kings and Queens, soprattutto per il “duello” fiatistico tra Francesca Petrolo (trombone) e Rosarita Crisafi (sax tenore), così come in Noisette la parte del leone è affidata ai tre sassofonisti (Massimo Falascone, Germano Zenga e Felice Clemente) che, pur con stili diversi tra loro, interagiscono in maniera vibrante e sentita. Dopo la breve versione per sole voci di Dedicated to you but you weren’t listening è la volta di Mousetrap, 9 minuti fitti di assoli e sprazzi strumentali e la storica Moon in June con i bravi Filippo Pascuzzi e Serena Ferrara alla voce e un altro grande rappresentante del sax come Rudi Manzoli. Faraò e l’orchestra ci mettono tanto del loro nel “trattare” la materia Soft Machine attraverso sviluppi fiatistici imprevedibili, coloriture organistiche di pregio, spunti vocali di rilievo e pulsioni rock che ben si inseriscono nelle trame create. Ferdinando Faraò & Artchipel Orchestra Play Soft Machine è un tributo pieno di fascino e di comunicatività, tanto che viene spontaneo domandarsi quando potremmo avere un secondo capitolo, magari dedicato a qualche altra leggenda canterburiana. (Luigi Cattaneo)

Moon in June (Live)

lunedì 22 dicembre 2014

DARK AGES, Teumman al Circolo Colony


Anteprima


Dopo il positivo riscontro del debutto e delle repliche svoltesi in suggestive location veronesi la scorsa estate e la prima delle date invernali nel prestigioso Teatro Astra di Verona, Teumman si sposta a Brescia in uno dei migliori club italiani dedicati alla musica dal vivo, il Circolo Colony.

I Dark Ages, storica band del panorama rock/metal italiano attiva dalla fine degli anni ’80, dopo vari cambi di line-up, ha trovato il suo assetto stabile a partire dal 2008 con l’ingresso degli attuali musicisti con i quali la band ha pubblicato, divisa in 2 parti, l’Opera Rock intitolata Teumman.

Dopo le critiche favorevoli delle due uscite Teumman pt.1 (2011)  e Teumman pt. 2 (2013) entrambe per la Heart of Steel Records di Vicenza, la band ha deciso di intraprendere l’ambizioso progetto della trasposizione teatrale dell’ opera che narra le vicende del principe Teumman caduto in battaglia che stringe un patto con il signore dell’oscurità il quale, in cambio della vita eterna, lo costringe ad eseguire il volere del male…

Una storia ambientata nell’antica Assiria scritta dal frontman Davide Cagnata e “raccontata” in musica dai Dark Ages che, nota dopo nota, gli hanno dato vita facendo muovere i personaggi, creando ambientazioni, trasmettendo sentimenti. Il risultato non ha lasciato indifferenti gli amanti del progressive rock e metal di stampo classico, caratterizzato dalla matrice rock che accomuna tutti i componenti del gruppo in particolar modo lo storico chitarrista Simone Calciolari; il tutto arricchito dagli arrangiamenti orchestrali e classici delle tastiere di Angela Busato e spinto dalla notevole sezione ritmica formata da Carlo Busato alla batteria e Nicola Cenzato al basso.

Era un sogno nel cassetto che avevamo dall’inizio” spiega il singer  Davide “ma solo l’incontro con le registe Federica Carteri e Roberta Zonellini, che hanno curato la drammaturgia e dirigeranno lo spettacolo, ha permesso a questa nostra idea di concretizzarsi” .

 

TEUMMAN

Opera Rock in 2 Atti (90 minuti + intervallo)

Musiche e liriche di Dark Ages – Drammaturgia di Federica Carteri

Direzione artistica, scenografia e costumi a cura di ‘Il Gatto Rosso’

Regia di Federica Carteri e Roberta Zonellini

Musiche Live di Dark Ages.

 

Personaggi Principali ed Interpreti:

Teumman – Davide Cagnata

Berkaal – Tiziano Taffuri

Agares – Emiliano Fiorini

Namrad – Ilaria L’Abbate

Oriax – Roberto Roverselli

 

DARK AGES

Record Label: Heart of Steel Records

Recording Studio: Mago Studio di Maurizio “Tacky” Fracchetti

Artwork & Web Master: Rejects Design di Elisa Santambrogio

Photo: Happy Photography Studio di Giovanna Aprili



 

ASSOCIAZIONE TEATRALE IL GATTO ROSSO

Sede legale – Via Monte Cricco 2b – 37014 – Castelnuovo del Garda (VR)


mercoledì 17 dicembre 2014

LITAI, Litai (2012)


Dopo aver vinto il concorso Omaggio a Demetrio Stratos, esordiscono sotto la direzione della sempre curiosa Lizard i veneziani Litai, band dedita ad un jazz rock che cerca di svincolarsi dai dettami del genere. Oltre difatti alle influenze settantiane di Area, Picchio dal Pozzo, Soft Machine e più in generale della scena di Canterbury, nella loro proposta ritroviamo alcuni aspetti cari ai contemporanei Labirinto di Specchi e Il Babau e i Maledetti Cretini, non solo per alcune scelte musicali ma anche per il recitativo presente in diversi momenti. Litai è un disco di non facile lettura, poco incline al compromesso e piuttosto coraggioso, proprio come alcuni dischi di King Crimson e Frank Zappa. Il punto focale paiono i fiati del valido Mattia Dalla Pozza (sax e flauto), ben amalgamati con il tocco frippiano di Francesco Piraino (chitarra) e le ritmiche irregolari e fantasiose di Michele Zavan (basso) e Stefano Bellan (batteria). L’interplay che si crea è piuttosto interessante, scorrevole pur nella sua complessità e le trame strumentali appaiono sempre ben messe a fuoco dal quartetto. Pur senza l’utilizzo delle immancabili tastiere i Litai riescono a creare frangenti caldi e suadenti ma anche stranianti nella loro particolarità. Qualche caduta di tono si avverte qua e là (soprattutto quando si dilungano troppo le parti declamate) ma nel complesso questa opera prima risulta sentita e abbastanza convincente. Un platter d’esordio che ha il merito di evidenziare alcune solide caratteristiche che devono forse essere solo ulteriormente rifinite per concretizzare ancor di più quanto di buono è stato proposto in questo debutto. (Luigi Cattaneo)

Babinia (Video)



JAKSZYK, FRIPP AND COLLINS, A scarcity of miracles (2011)


Non è un disco dei King Crimson. Non si tratta di un progetto solista di Robert Fripp. Ma allora di cosa bisogna parlare ascoltando A scarcity of Miracles? A King Crimson project è l’insolita dicitura posta sul disco che vede protagonisti oltre a Jakko Jakszyk alla chitarra, voce e tastiere, Mel Collins al sax e al flauto e Robert Fripp alla chitarra, una sezione ritmica capace di trasformare in oro tutto quello che tocca, ossia Gavin Harrisson alla batteria e Tony Levin al basso. Ovvio che con una line-up del genere vi siano dei rimandi ad alcuni album del Re Cremisi ma le sorprese rispetto al più recente passato non mancano di certo. Ci sono quindi in pieno le stigmate del suono King Crimson ma c’è anche una voglia di provare a dettare schemi differenti e a sviluppare sonorità e soluzioni che poi, magari, potrebbero tornare utili per la band madre. Già l’iniziale title track si dimostra evocativa, pregna di atmosfere rarefatte che potranno piacere sia ai vecchi fan dei King Crimson, sia ai più giovani che amano Steven Wilson e i suoi mille progetti. Fripp disegna scenari come solo lui sa fare da più di 40 anni, Collins irrompe con la sua naturale freschezza imponendosi subito come elemento aggiunto di grande spessore non solo tecnico ma anche cominicativo, Jakszyk si dimostra cantante dotato ed espressivo. The price we pay è il brano più diretto dell’intero album, piccola gemma che mostra la grande attenzione posta da Fripp nell’utilizzare trame fiatistiche delicate e di sicuro effetto senza dimenticare il suo amore per la ricerca. Secrets soffia leggera, come qualcosa di indefinito e di lieve nella prima parte, salvo poi essere scossa da una potente ritmica su cui si appoggia la mano solida di Fripp e quella più tenue di Collins. Una doppia anima, una personalità multipla e in continuo mutamento che non si lascia scoprire con facilità e che ti trasporta in territori mai prevedibili, proprio come la storia dei King Crimson insegna. This house è una spirale che ti avvolge ascolto dopo ascolto, densa di una malinconia autunnale, un mantra dove il termine progressive assume davvero i connotati di un mondo dove perdersi tra mille suoni e visioni, piccoli particolari che mai risultano lasciati al caso ma anzi utili alla riuscita della composizione. Altra perla è The other man, uno dei momenti più significativi del lavoro, in bilico tra visionaria psichedelia e progressive rock fortemente elettrico che conquista la scena a scapito dell’atmosfera che aveva contraddistinto sinora il disco. Chiude The light of day, brano affascinante nel suo incedere, impregnato di un alone di mistero che ti conquista, pur essendo, è bene dirlo, tutt’altro che facile da assimilare, anche per quei 9 minuti di durata che forse alla lunga non giovano del tutto alla composizione. Ma questo appare un dettaglio. La verità è che ci si trova davanti ad un album completo, ricco di idee, pieno zeppo di spunti riusciti e che pur essendo meno complesso di altri lavori targati King Crimson non risulta mai banale o scontato. In attesa di nuove notizie relative al gruppo che ha influenzato generazioni di musicisti rock e metal si può accettare con gioia questa ennesima prova maiuscola di Fripp e compagni. (Luigi Cattaneo)

A Scarcity of Miracles (Official Video)



giovedì 11 dicembre 2014

ARRJAM, Session One (2014)


Gli Arrjam sono un interessante progetto con quattro membri fissi pronti ad accogliere musicisti esterni per dare libero sfogo a delle jam libere da qualunque schema. Concetto particolare che vede protagonisti il bassista Daz (membro dei Vicolo Inferno), motore ritmico insieme al batterista Moretti Butcher, Got alla voce e Mauroman alla chitarra, in un turbinio di funky rock con spunti hard che cerca di smarcarsi dall’affiancamento costante ad un genere. E allora ci si può imbattere in passaggi strumentali cari a Robben Ford o momenti vicini ad alcune realtà crossover come Red Hot Chili Peppers e Primus. Si parte da un approccio da jam band per poi deviare verso lo schema forma canzone, seppure senza pensare troppo a quale direzione intraprendere, cercando sempre di giostrare tra vari generi e differenti percorsi. I quattro mostrano di avere ottime doti, capacità di coinvolgere e anche una certa ironia, sempre al servizio di brani ampiamente diretti e mai particolarmente ostici all’ascolto (seppur complessi dal punto di vista tecnico). Il funk e l’hard rock sono gli elementi prevalenti del sound della band e in alcuni momenti sembra di sentire echi dei migliori Living Colour, pur tenendosi lontani da scimmiottamenti di sorta. L’attenzione verso melodie di facile assimilazione risulta uno degli elementi più importanti, anche in brani piuttosto strutturati come Ali o Welcome to the Cocaine, strumentali tirati e pieni di groove. Le note scorrono veloci ma senza virtuosismi inutili e ne sono prova tangibile le ottime Very Nice e Screaming for, pezzi molto piacevoli e di grande carica. Session One è indubbiamente un buon debutto che ha il pregio di lasciare aperte varie strade in cui infilarsi, vediamo quale sceglieranno di intraprendere gli Arrjam in futuro e se il progetto può avere un reale sviluppo. (Luigi Cattaneo)

Very Nice (Official Video)

martedì 9 dicembre 2014

BUBU, Anabelas (1978)


Ci sono stati, negli anni ’70, popoli che lontani tra loro hanno condiviso la passione per uno stile di musica, il progressive (anche se la definizione è postuma), che univa rock, musica classica, psichedelia, jazz, folk, in un meltin pot sonoro estremamente variegato e variopinto. Abbattere certi confini per crearne di nuovi. E così è stato, se si pensa che il “morbo” progressivo contagiò non solo i paesi occidentali ,dove effettivamente tutto il movimento si è creato, con Gran Bretagna in testa seguita a ruota da Italia, Germania e Francia, ma si interessarono alle nuove sonorità le più disparate nazioni, con risultati anche davvero ottimi. Leggenda vuole che diversi gruppi progressivi dell’ Europa dell’est abbiano avuto parecchi problemi per quello stile musicale troppo occidentale… I Fermata, jazz rock band proveniente dalla Repubblica Ceca, furono contrastati dall’allora regime comunista per l’introduzione di ritmi e sonorità occidentali; stessa sorte per i conterranei Blue Effect che furono addirittura costretti a modificare il loro monicker in Modry Efekt; i Yugoslavi Korni Grupa Kornelyans cercavano di non allungare troppo i loro brani per non crearsi problemi con il regime che non vedeva di buon occhio il loro amore per il progressive italiano; infine mi preme citare i rumeni Phoenix, gruppo dalla storia piuttosto bizzara e travagliata. Difatti partiti come Sfintii (I Santi) nel 1962 sono costretti dal regime a cambiare nome per poter suonare ancora, salvo poi vedere una loro opera del 1973 boicottata con tagli tali da ridurre il disco ad ep. Si narra addirittura di fughe dal paese nascosti nelle custodie degli amplificatori! C’è stato un continente che ha accolto più di ogni altro gli imput provenienti soprattutto dall’Inghilterra e dall’Italia e li ha rivisitati alla luce di una cultura, anche popolare, che non ha eguali, il Sud America. Ogni paese che lo forma ha dato un contributo importante, trapiantando in un proprio codice genetico certi suoni che avevano fatto breccia nei cuori degli appassionati europei, impastando il tutto con colori e umori tipici della propria terra. Ovviamente anche qui ci sono stati casi più eclatanti e imitatori, gruppi fondamentali e altri trascurabili. Una delle band principali è quella dei Bubu, argentini artefici di un unico e sublime disco, Anabelas, del 1978. Mentre in Europa il rock progressivo iniziava a leccarsi le ferite, spazzato via dalla voglia di tornare ad un sound più asciutto e immediato dettato dalle nuove tendenze del punk e della new wave, in Argentina il movimento progressivo, pur se molto underground, aveva ancora delle cartucce da sparare. E che cartucce verrebbe da dire ascoltando l’esordio dei Bubu, uno di quei lavori di cui è difficile non innamorarsi. Si parte subito con il pezzo forte dell’album, la suite strumentale di 20 minuti circa El Cortejo de un dia amarillo, dove si sprecano i cambi di tempo e di atmosfera, complice la ricca strumentazione a disposizione degli argentini, in un suono che sovrappone con sorprendente armonia il sax di Win Fortsman, il violino di Sergio Polizzi, il flauto di Cecilia Tenconi e la chitarra di Eduardo Rogatti. A volte questo articolato assortimento sonoro ricorda la follia calcolata di Frank Zappa e la complessità strutturale dei migliori Gentle Giant. Un rischio che pare calcolato vista la grande dimestichezza tecnica di cui dispongono i Bubu, perché anche quando il pezzo sembra senza una precisa direzione spunta sempre il colpo d’ali che rimette in riga le cose. E questa è caratteristica spesso dei grandi. Inoltre i confini il cui si muove la suite è spesso labile. Oltre al già citato Zappa e ai Gentle Giant, i Bubu si avvicinano anche ai King Crimson, soprattutto grazie alla fantasiosa sezione ritmica formata da Eduardo Fleke Folino al basso ed Eduardo Fleke Corbella alla batteria e al jazz rock dei Soft Machine. In un quadro così variegato i Bubu si muovono con classe e qualità riuscendo a creare un brano immortale di tutto il rock progressivo, non solo di quello sudamericano. Anche la seconda traccia, El viaje de Anabelas, è piuttosto lunga e complessa, con i suoi 11 minuti di durata. L’inizio vede protagonista Polizzi con il suo flauto a cui ben presto si accorpano il violino e il sax, finchè non si giunge al primo e lirico momento cantato da parte di Petty Guelache. Ma è solo un attimo perché subito la band si tuffa con foga nel creare un altro grandissimo momento strumentale, con i fiati e il violino a rimarcare con forza la tensione espressiva che davvero caratterizza tutto il brano, con richiami al progressive dark dei Van Der Graaf Generator, al jazz e al Canterbury sound. Chiude l’album Suenos de Maniqui, imprevedibile traccia che alterna accelerazioni frenetiche ma ragionate in cui chitarra e violino si lanciano in una folle corsa a grande velocità e sprazzi più sobri in cui si fa valere anche Guelache che risulta molto espressivo e caldo. Stupisce la simbiosi tra le parti più furiose e psichedeliche, con una sorta di romanticismo magico che lega la terra di appartenenza con i Jethro Tull più ispirati. Anabelas è un disco completo, emozionale, memorabile. Non ci sono cali di tensione o momenti insignificanti e la tavolozza sonora utilizzata è invidiabile. Le grandi doti tecniche di cui dispongono consente all’ensemble di passare con facilità dal progressive sinfonico alla psichedelia, passando attraverso la fusion e il jazz rock, senza dimenticare un certo fascino tipico dell’ America Latina, dettato soprattutto da alcune atmosfere e dal cantato spagnolo. Un piccolo tesoro nascosto che purtroppo come spesso è capitato non ha avuto un seguito, ma che si deve preservare dalla scomparsa. Tenere viva la memoria aiuta. (Luigi Cattaneo)

Anabelas (Full Album)

lunedì 1 dicembre 2014

CONCERTI DEL MESE, Dicembre 2014

Martedì 2
·Locanda Delle Fate Asti

Venerdì 5
·Aldo Tagliapietra Dalmine (BG)
·Astrolabio+Moto Armonico Club Il Giardino Lugagnano (VR)
·Mirrormaze Ornavasso (VB)

Sabato 6
·Banco del Mutuo Soccorso Roma
·I Treni all'Alba Torino
·Spellbound+Vortice di Nulla Paprika Jazz Club Dalmine (BG)
·Ainur Moncalieri (TO)
·Trewa Como
·Fungus Genova

Domenica 7
·Arturo Stàlteri a Napoli

Lunedì 8
·FixForb Blues Canal ore 20:00 Milano

Martedì 9
·Ranestrane Roma

Mercoledì 10
·Mastodon Milano

Giovedì 11
·London Underground Siena
·Tuxedomoon Leoncavallo Milano
·Ossi Duri S. Ambrogio di Torino (TO)

Venerdì 12
·Dropshard Desio (MB)
·EL&P Project Tribute Roma
·Taproban Roma
·Tuxedomoon Roma
·Ossi Duri Piacenza
·R.U.G.H.E. Genova

Sabato 13
·Ossi Duri Casa di Alex Milano
·Fabio Gremo+Delirium+Coscienza di Zeno Genova
·Senza Nome Marino (Roma)
·Mike 3rd Club Il Giardino Lugagnano (VR)

Domenica 14
·Astrolabio Verona
·Quintorigo & Roberto Gatto Milano
·Tuxedomoon Bologna



 Giovedì 18
·Runaway Totem Zero Branco (TV)
·Camelias Garden Roma

Venerdì 19
·Anyway Moncalieri (TO)
·Balletto di Bronzo+Sophya Baccini Roma
·Il Tempio delle Clessidre Genova
·Squartet Bologna

Sabato 20
·Sintonia Distorta Lissone (MB)
·Alphataurus Cherasco (CN)
·Osanna Napoli
·Napoli Centrale Pozzuoli (NA)
·Quarto Vuoto Meolo (VE)

Domenica 21
·Quintorigo+R.Gatto S. Anna Arresi (CA)

Sabato 27
·Supper's Ready Lugagnano (VR)
·Dark Ages Brescia
·Nodo Gordiano Roma
·Lingalad Vallerano (VT)