martedì 25 dicembre 2012

ALAN SORRENTI, Aria (1972)



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Gli anni ’70 sono spesso stati caratterizzati dalla voglia di sperimentare, di osare, di non avere paletti ma di creare nuovi percorsi in cui muoversi ed esprimersi. Caratteristica ovviamente non comune a tutti ma che abbiamo spesso ritrovato, soprattutto ad inizio decennio, quando la curiosità e la voglia sfrenata di avere un sound originale portava i musicisti a rompere con la tradizione o ad utilizzarla per sviluppare qualcosa di diverso. Anche il Progressive non è esente da tali “regole”, basti pensare a tutte quelle band che riuscirono ad avvicinare il rock alla musica classica (Concerto grosso dei New Trolls è l’esempio più lampante) o al jazz, riuscendo ad abbattere barriere che opprimevano e non lasciavano la possibilità di sviluppi più elaborati. Ma queste esigenze non furono espresse solo dai gruppi ma anche da una miriade di cantautori che flirtavano con certe sonorità. Lecito quindi parlare di cantautori progressivi vista la mole di lavori a noi giunti e che spesso risultavano essere anche di buona fattura. Difficile non citare in un analisi del periodo artisti fondamentali come Franco Battiato o Claudio Rocchi, gli insospettabili Alan Sorrenti e Lucio Battisti, i meno noti Mario Barbaja ed Enzo Capuano. Questo primo numero di Canto di Primavera è dedicato ad Aria, album del 1972 con il quale Alan Sorrenti (fratello di Jenny Sorrenti dei Saint Just) si presentava al pubblico in una veste atipica alla luce di quella che è stata la sua carriera negli anni a venire.

Difficile credere ad un primo ascolto che dietro a tale esigenza comunicativa ci fosse il buon Sorrenti. Ed invece per alcuni anni (almeno il biennio 1972-73) il cantante si avventurò verso soluzioni che si potrebbero definire di folk psichedelico tutt’altro che di facile assimilazione, utilizzando la sua voce come nessuno in quel momento in Italia.

È proprio Aria, posta in apertura, con i suoi 20 minuti di durata, a portarci nel mondo incantato di Alan. La title-track in questione è il vero pezzo forte del disco, il brano guida dove Sorrenti sperimenta maggiormente e utilizza la voce come un vero e proprio strumento. Come dicevo poc’anzi, vista la data di pubblicazione, nessuno almeno in Italia si era ancora permesso di usare la voce in maniera così estrema e fuori dai canoni comuni. Il risultato è assolutamente valido, non ci troviamo di fronte ad una sperimentazione fine a sé stessa e questo è dovuto anche ad una band di primo livello, con un eccellente lavoro ritmico di Toni Esposito alla batteria e alle percussioni, le tastiere (piano, hammond, mellotron) di Albert Prince, il violino di Jean Luc Ponty e il basso di Vittorio Nazzaro. Il brano è una girandola di suoni psichedelici in cui si lascia ovviamente ampio spazio alla voce di Sorrenti, che può richiamare alla mente Peter Hammil e Tim Buckley, che risulta sì virtuosa, ma anche sofferta e ipnotica.

Risultati immagini per aria sorrentiTutta questa complessità è bilanciata dalla successiva Vorrei incontrarti, una dolce ballata folk dal piglio decisamente diverso che invece conquista dal primo ascolto. A testimonianza di ciò basti pensare alle diverse versioni che nel corso degli anni si sono susseguite di questo piccolo classico della musica italiana, anche da parte di artisti lontani dal progressive come Andrea Chimenti e i La Crus. Peccato che La mia mente perda quella freschezza e quel brio che aveva sin ora contraddistinto l’album, anche se sicuramente non viene meno la verve vocale di Sorrenti, sorretto da un tappeto ricercato di suoni e umori che non sempre convincono. Si lascia preferire la conclusiva Un fiume tranquillo, dove brilla la performance di Andrè Lajdli alla tromba, anche se il meglio di questo esordio è indubbiamente nelle prime due tracce.

 



 



lunedì 24 dicembre 2012

AKT, Blemmebeya (2011)

Che bello vedere un gruppo giovane autoprodursi un lavoro di tale qualità e per di più avere il coraggio, la forza e la voglia di distribuirlo gratuitamente tramite download. I bolognesi hanno atteso il momento giusto, hanno lasciato decantare la loro arte dopo l’esordio Dentrokirtos del 2007 e dopo 4 anni si sono ripresentati con il nuovo Blemmebeya. Il trio formato da Marco Brucale alle chitarre, Alessandro Malandra al basso e Simone Negrini alle tastiere e alla batteria sono i protagonisti di un disco da ascoltare con cura, a tratti ostico ma sempre ricco di sfumature melodiche, figlio del progressive rock targato anni ’70 e non solo. Inoltre la scelta del concept improntato sull’assalto dell’informazione che svilisce e corrode il pensiero dell’uomo trasformandolo in essere senza testa intriga non poco e risulta interessante a prescindere dal punto di vista di ognuno di noi. L’intro ci conduce a L’assalto, uno dei brani meglio riusciti, carico di suggestioni e di elementi che riportano al Banco del Mutuo Soccorso, con un andatura tipica del progressive anche per via di un utilizzo molto intelligente dei sintetizzatori in una struttura piena di spunti in cui anche gli intrecci vocali fanno la loro bella figura, pur se la band non ha un vero cantante di ruolo. La strumentale TG Egeo è più vicina agli umori degli Area, soprattutto per un’ascendenza lievemente balcanica che tanto era cara al gruppo di Demetrio Stratos, segno della grande passione per la scena italiana. Più leggera ma non meno impegnativa è Favonio, traccia che si basa sull’assonanza pianoforte-chitarra acustica che anticipa la complessa Stati d’animo uniti, decisamente meno agevole per via di quell’alternanza tra momenti più ombrosi e carichi di tensione ed altri dove questa si stempera a favore di un clima meno fosco nel quale si mette in evidenza il fine lavoro acustico che contraddistingue gli Akt. Di vento è un altro must del disco e ha la forza di riuscire a coniugare l’espressività dei CSI, arrivando a citare ed omaggiare il canto di Giovanni Lindo Ferretti con l’art prog di 40 anni fa! Quindi vagiti post punk che fan trapelare un inquietudine di fondo ben radicata nel testo e aperture melodiche di grande fascino e zeppe di lirismo. Colpisce anche Mani aperte, impregnata dei suoni magnetici delle tastiere di Negrini, così come Zeitgeist, brano dal tratto energico e imponente che può ricordare i King Crimson. Chiude un pezzo evocativo ma anche dall’animo tormentato come La fine, oscura conclusione del racconto in musica architettato dal trio. Nell’album ritroviamo alcuni dei gruppi che hanno fatto la storia del genere, Banco del Mutuo Soccorso e P.F.M. ma anche qualcosa dei King Crimson e dei Genesis, rivisti però in una chiave personale e per nulla nostalgica. Colpisce soprattutto il pathos e il calore con cui sono state composte le tracce e la parte lirica che deve stare particolarmente a cuore alla band. Un gruppo che meriterebbe la grande attenzione del fruitore abituale di progressive e anche un occhio di riguardo da parte di chi questa musica la produce e la distribuisce. (Luigi Cattaneo)


Di Vento (Video)

domenica 23 dicembre 2012

ABASH, Madri senza terra (2010)

World music che si sposa perfettamente con il progressive e il rock per questo quarto lavoro della band salentina, gruppo nato nel 1998 e che si è andato consolidando con il passare degli anni, sino ad approdare nel rooster Immaginifica-Aereostella di Franz Di Cioccio della P.F.M. e Iaia De Capitani, che hanno dato l’opportunità al gruppo di  suonare nella splendida cornice romana del primo Prog Exhibition del 2010. E le premesse devo dire che sono tutte mantenute, perché questo Madri senza terra (già pubblicato nel 2006 per Il Manifesto) è un album molto ispirato e capace di unire la musica etnica del salento con soluzioni africane e melodie di ascendenza orientale, senza dimenticare passaggi più tipicamente occidentali che profumano talvolta di progressive, talvolta di hard rock. Il concetto si chiarisce da subito con Niuru te core che propone ritmiche e suoni quasi da heavy metal band, salvo poi intrecciarsi con le tastiere elettroniche di Luciano Toma e aprirsi in maniera totalmente melodica nel ritornello cantato in dialetto da una bravissima Anna Rita Luceri. Basta il titolo, Salentu e Africa, per capire in quale direzione ci porta il brano successivo. Un viaggio che ci conduce dalle coste salentine con i suoi suoni e i suoi profumi a respirare e a toccare quasi il continente africano a colpi di world music dalle tinte rock, con la chitarra di Daniele Stefano ben in primo piano e pronta a riportare il suono in direzione occidente. Madri ci fornisce prova ulteriore del loro talento,  sospeso tra suggestioni musicali di popoli e tradizioni differenti che si incrociano e si incontrano in maniera coerente ed eclettica. E allora emerge anche l’amore per suoni moderni e di stampo hard con La corsa di Assan, dove convince il duetto tra Maurilio Gigante (basso e voce) e la Luceri che grazie ad un’ indubbia capacità espressiva è l’elemento in grado di donare profondità maggiore a brani costruiti davvero con cura. Una robustissima sezione ritmica e il potente riff heavy di Stefano sorreggono la singer impegnata in un'altra prova eccellente nella seguente Canto alle nuvole, forse il brano dove prevale maggiormente l’anima rock dei salentini. Si arriva poi alla stupenda Oltre, dove l’atmosfera generale pare un tributo a certo progressive italiano dei ’70, soprattutto nell’uso delle tastiere da parte di Toma che sa incantare e costruire tappeti su cui si esprime al meglio la Luceri. Otranto 14/08/1840 con i suoi quasi otto minuti di durata fonde il progressive con le radici del gruppo e si intreccia con l’elettricità della chitarra di Stefano che qui fa sentire come Steve Vai e Joe Satriani siano due modelli di riferimento. I tanti mondi sonori esplorati vengono amalgamati dalla band in maniera fluida e sorprendente nella splendida Maran Atha, che addirittura viene cantata in aramaico! La tradizione si amalgama ancora con il rock in Non gridate più e nella conclusiva Scale fino al cielo che possono richiamare alla mente tanto gli Agricantus quanto una band di metal progressivo. Il disco è sorprendente soprattutto per le varie sonorità che la band è riuscita a trattare con efficacia e in maniera del tutto armoniosa. Ci trovi dentro la world music, l’ethno-rock, il progressive, l’hard rock , il tutto ben miscelato grazie a ottime capacità compositive e a brillanti doti tecniche di cui sono in possesso tutti i membri della band. Colpisce davvero la versatilità con cui vengono trattati i generi, il modo in cui elementi tradizionali vengono elaborati a favore di una ricerca originale di suoni e prospettive. Insomma, un lavoro dinamico, vivace e intenso. (Luigi Cattaneo)

Oltre (Video)




A RAINY DAY IN BERGEN, A Rainy day in Bergen (2012)

Il panorama underground italiano saluta una new entry dai contorni sfumati e dalle più disparate influenze, gli A Rainy day in Bergen, che con questo disco d’esordio dimostrano di avere idee in abbondanza e ottime doti compositive. Il trio salernitano formato da Carlo Barra ai sintetizzatori e al piano, Pasquale Aliberti alla voce e al basso e Diego Maria Manzo alla batteria decide di creare un sound in cui convivono un pizzico del progressive più moderno e la new wave, l’elettronica e il rock ma senza utilizzare la chitarra, affidando il ruolo guida agli strumenti di Barra. Bergen è una piovosa città norvegese e il clima del disco rispecchia l’andamento atmosferico del paese attraverso sonorità umbratili che la band sparge a piene mani ma senza mai eccedere in enfasi. La dedizione infusa dai tre è percepibile da subito e Perhaps riesce ad essere drammatica, dirompente e delicata grazie ad un utilizzo accorato del piano e alla intensa voce di Aliberti. It has left segue la scia della traccia iniziale ed è un concentrato di inquietudine e malinconia, mentre Struggling for breath vira verso un synth pop molto orecchiabile, caratteristica questa che a dire il vero ritroviamo un po’ in tutto l’album. Grey haze è il brano più vigoroso tra i presenti e mostra influenze rintracciabili in certo alternative americano (Orgy e affini), mentre A thousand universes torna sui binari cari al gruppo con il suo incedere vicino alle atmosfere dei Muse. Gotta enjoy inizia come una ballata per voce e piano, salvo poi modificare registro dopo un break centrale con l’incursione della sezione ritmica. Lo stesso si può dire per My way to dove il trio punta ancora sull’emozionalità, elemento questo che si ritrova di continuo e su cui la band pare puntare parecchio. Il piano rimane uno degli elementi centrali anche nei brani seguenti dove la band segue sempre la scia di atmosfere dark e drammatiche come nel caso di Children on birthday  e Worried about everything. La chiusura è affidata a Not beyond Tomorrow che non fa altro che confermare le potenzialità della band, capace di muoversi costantemente in bilico tra echi alternative, ombre dark, attitudine pop e un velo di rock progressivo riconducibile più che altro agli ultimi Marillion e agli Airbag. L’album pur non presentando soluzioni particolarmente complesse e nello specifico riconducibili al progressive come spesso lo si intende risulta interessante e piacevole per quasi tutta la sua durata e nel complesso appare riuscita la formula utilizzata, quella di unire e codificare influenze parecchio differenti tra loro. Ovviamente chi cerca tempi dispari e suite di grande lunghezza si domanderà cosa ci fa un gruppo simile su un sito dedicato prevalentemente al progressive. Chi invece non vive con certi diktat può avvicinarsi senza remore e viaggiare verso Bergen in buona compagnia. (Luigi Cattaneo)


Struggling for breathe (Official Video)