Above all else è l’esordio dei Nova Cascade, band artefice di
un melting pot sonoro a base di ambient, post e progressive, nata nel 2017 e
che dopo 18 mesi di lavoro ha deciso di mettere nero su bianco sensazioni e
umori comuni. Dave Hilborne (synth e voce), Dave Fick (basso), Alessio Proietti
(chitarra e voce), Charlie Bramald (flauto), Heather Leslie (violino) e David
Anania dei Blue Man Group (batteria) hanno dato vita ad un disco in cui la
componente ambient appare come la parte centrale, quella che collega tutti i fili,
con gli elementi elettronici che vanno ad incontrare le melodie fatate e vellutate
del flauto e del violino, dove persino i pochi spunti vocali rimangono
sottotraccia, non emergono, si fondono con tutti gli strumenti presenti,
diventano un sussurro. Si potrebbe chiamare in causa Vangelis ma anche il
fondamentale Jean Michel Jarre, soprattutto per alcuni frangenti in odore di
New age capaci di essere molto descrittivi, ma non è sbagliato citare i Pink
Floyd dell’ultimo The endless river,
con quel mood etereo costante per tutto l’album. La grande pecca è la
registrazione piuttosto amatoriale, che non aiuta a percepire in modo adeguato
tutte le raffinatezze del sestetto, ma è pur vero che l’autoproduzione è un
problema comune a tantissimi gruppi emergenti o alle prese con il disco
d’esordio, a maggior ragione se si lavora a distanza come nel caso dei Nova
Cascade. Above all else è stato
concepito come fosse un unico movimento suddiviso in dodici tracce e va
ascoltato in silenzio, nella penombra, perché serve una certa predisposizione,
solitaria e riflessiva, per beneficiarne appieno e lasciarsi trasportare da
questa musica evocativa, con la title track esemplificativa dell’interplay tra
le note delicate suonate da Bramald e dalla Leslie e la lievità vocale con cui
si muove l’ensemble. Fraseggi che ritroviamo anche in Hurtled e Lo-Fi, mentre Epiphany vede l’inserimento ritmico di
Anania e Wilted, con il ritorno di
una breve parte vocale, chiude un debut interessante e personale. (Luigi
Cattaneo)
Progressive Rock&Metal ma anche una panoramica su Jazz, Blues, Folk, Hard&Heavy, Psichedelia, Avanguardia, Alternative, Post Punk, Dark Rock. Un blog sulle sfumature della Musica.
sabato 29 dicembre 2018
venerdì 28 dicembre 2018
DWIKI DHARMAWAN, Rumah Batu (2018)
Abbiamo già parlato del
talento di Dwiki Dharmawan in occasione delle due precedenti uscite, So far so close (2015) e il doppio Pasar Klever (2016) e il recente Rumah Batu è la conferma della bravura
compositiva del tastierista indonesiano, qui accompagnato dall’istrionico
Nguyên Lê (chitarra e soundscapes), dallo spagnolo Carles Benavent (basso), da Yaron
Stavi (contrabbasso) e da Asaf Sirkis (batteria). Questo nuovo album è un
melting pot di jazz, progressive e world, soprattutto nelle parti vocali nella
lingua madre, che rendono il tutto molto particolare e a tratti ostico ma
estremamente affascinante (come la lunga Paris
Barantai con Sa’at Syah alla voce, impegnato in quasi tutti i pezzi del
disco anche al flauto). Dwiki d’altronde è sempre stato un maestro nel proporre
una sua personale visione del jazz rock, con trame spesso molto strutturate (la
brillante Rintak Rebana) e
arrangiamenti fantasiosi, caratteristiche che contraddistinguono anche il nuovo
disco e che probabilmente si spinge anche oltre le più recenti visioni
personali dell’autore, che sembra guardare con più attenzione al suo paese
natio, con la delicata Impenan che
pare essere uno dei manifesti di questo suo desiderio. Il mood etnico di certi
momenti (il traditional del Bali Janger)
appare più marcato rispetto alle precedenti uscite, forte di una visione
d’insieme sempre molto libera, spirito che d’altronde anima da sempre anche la
Moonjune, ancora a fianco di Dwiki anche per Rumah Batu. Il lavoro di squadra trova nella lunghissima suite centrale
di circa ventisei minuti, che dà il nome all’album, la sintesi dell’opera, sia
perché nasce da un traditional dell’isola Sulawesi, sia perché è firmata da
tutti e cinque i musicisti della band, che si destreggiano tra partiture
complesse e decisamente articolate. L’evoluzione di Dharmawan tratteggia anche
le conclusive Samarkand e Selamatkan Orang Utan, la prima è un
frizzante jazz rock piuttosto coinvolgente, mentre la seconda sposta il tiro
nuovamente sul lato etnico della proposta, con la forte presenza di Syah e le
Kendang di Ade Rudiana (che a dire il vero ritroviamo in buona parte del disco),
che chiudono un ritorno davvero pregevole per il tastierista indonesiano.
(Luigi Cattaneo)
HYENA RIDENS, La corsa (2018)
La corsa è il secondo album targato Hyena Ridens, ma è
anche il filo conduttore del lavoro, un’idea di concepire l’esistenza che viene
insegnata sin da piccoli, un indaffararsi quotidiano che è errore costante e di
cui la vita è piena di esempi. I napoletani dopo Cave Canem del 2014 sono diventati un trio (Gennaro Davide alla
voce e al basso, Paolo Cotrone alla batteria e Paolo Astarita alle tastiere) e
con il nuovo disco elaborano un crossover interessante di post, alternative e
progressive, stile che colpisce già dall’iniziale title track, tra i momenti
più riusciti dell’album. Fantasmi conferma
la bontà della fusione e il nuovo percorso della band, Palomar accentua il lato misterioso e psichedelico della proposta,
mentre Falsi approdi mostra
un’affascinante vena notturna, in cui un ruolo importante lo svolgono le
tastiere di Astarita. Laura è un
brano molto particolare, rivestito di un arrangiamento proggy e di un break
centrale psichedelico, risulta essere tra le composizioni più peculiari del
lavoro, prima dell’hard prog strumentale Un
pianoforte nell’abisso e di Il
ritorno, altro gradevole momento di La
corsa. Ci si avvicina alla conclusione dapprima con la cupa Tradimento, per poi spostarci su
territori marcatamente rock con Essere
umani e l’ottima cover di Vesuvio (degli
E’ Zezi), finale del disco che si avvicina al nuovo corso degli storici Osanna.
Bel lavoro per i napoletani, bravi nell’unire malie prog all’interno di una
forma canzone personale e libera, sfaccettata ma sempre presente, una costante
che va solo ancora lievemente affinata per essere durevole nel tempo. (Luigi
Cattaneo)
Fantasmi (Official Video)
giovedì 20 dicembre 2018
DEMETRA SINE DIE, Post Glacial Rebound (2018)
Avevamo parlato dei
Demetra Sine Die ai tempi dell’ottimo A
quiet land of fear del 2012 ed è un piacere ritrovarli a distanza di cinque
anni con il nuovissimo Post Glacial
Rebound, uscito qualche mese fa grazie alla sempre attenta Third I Rex.
Rispetto al recente passato la formazione è diventata un trio (Adriano
Magliocco al basso e ai synth, Marcello Fattore alla batteria e Marco Paddeu
alla voce, alla chitarra e al Korg) ma l’oscurità che pervadeva il precedente lavoro
è ancora qui, si percepisce, avvolge l’ascoltatore, in un crossover di
psichedelia, sludge, noise, metal e doom. Le trame di questo come back
confermano la predisposizione per strutture articolate, intense, grevi, un mood
sulfureo pervade ciò che sembra un viaggio nei meandri dell’inferno, con
richiami a band come Blut Aus Nord e Virus, ma sempre con un approccio
personale e caratterizzante. Stanislaw
lem apre le danze, ed è subito un grande traccia di doom claustrofobico, un
trip nero pece, emozionale nella sua decadenza, che fa il paio con la
successiva Birds are falling,
leggermente più melodica ma non per questo meno dark e soprattutto conferma la
sensazione di trovarci dinnanzi ad una band che cerca di differenziarsi in
maniera del tutto naturale. Lament evolve
al suo interno, con parti recitate lievi che preparano l’ennesima sferzata
gravida di cupa psichedelia e lugubre doom, a cui si aggiunge un finale dal
sapore black metal, con la voce di Paddeu che riempie l’aria con laceranti
growl. Elementi che ritroviamo anche nella lunga Gravity, a cui contribuisce Luca Gregori, voce dei black metallers
Darkend, prima di Eternal Transmigration,
uno spoken word fortemente ambient che non convince del tutto. Liars torna su livelli più consoni al
gruppo, così come la title track conclusiva è l’ennesima esperienza a base di psichedelia
progressiva, atmosfera malsana e sfuriate noisy. Chi conosce già la band non si
perderà senz’altro questo avvincente ritorno, chi ancora è all’oscuro
dell’esistenza dei Demetra Sine Die ha l’obbligo, quasi morale, di iniziare
proprio dal nuovo Post Glacial Rebound.
(Luigi Cattaneo)
Full Album Video
mercoledì 19 dicembre 2018
LADY MACISTE, Laut (2018)
Gian Luca (chitarra e
voce) e Roberto Parma (batteria) sono il power duo dietro cui si cela la sigla
Lady Maciste, progetto nato dalle ceneri degli Akemi e pervaso di stoner, con
riff di chitarra saturi, ritmiche salde e una bella dose di “tiro” rock. I due
fratelli di Bellaria puntano molto in questo ep sull’impatto, sembra quasi
vogliano abbattere qualche ostacolo, spingersi oltre lacerando ciò che trovano
dinnanzi e difatti ciò si evince anche dalle parole offerte dai ragazzi
riminesi. In tutti i brani rimane
costante il desiderio di mantenere viva la tensione, senza mai abbassare la
guardia. Volevamo registrare qualcosa da ascoltare tutto d’un fiato, senza
momenti di tregua … L’inizio di Laut è
affidato a Bruto, ideale per calarci
nelle atmosfere power rock del gruppo, perfetti nell’essere diretti e senza
fronzoli, per quello che è anche il primo singolo scelto per lanciare il
lavoro. Il secondo è Pink, riprova
della potenza insita nel duo, che qui dà corpo a sonorità oscure in un climax
che ricorda qualcosa del Lanegan solista. Devil
is my bride è un altro momento molto compatto, trascinante nel suo mood
stoner e nuovamente velato di un’insana cupezza di fondo, che si stempera nella
coda strumentale finale carica di elettricità. Ted bundy si tinge di desertica psichedelia, pur senza far venir
meno una certa attitudine aggressiva, confermata da Gong e dalla conclusiva Just
a kid, che presenta un’inaspettata vicinanza nel finale della traccia con i
Radiohead, elemento da non sottovalutare e che potrebbe riservare qualche
sorpresa anche nel futuro dei due fratelli. (Luigi Cattaneo)
Bruto (Official Video)
martedì 18 dicembre 2018
WATERSHAPE, Perceptions (2018)
Debutto per i
Watershape, quintetto formato da Niccolò Cantele alla voce, Mirko Marchesini
alla chitarra (elemento di spicco dei bravissimi Sinatras), Mattia Cingano al
basso, Enrico Marchiotto alle tastiere e Francesco Tresca alla batteria (già
con gli Hypnotheticall e i Power Quest). Perceptions
è un album attraversato dalle influenze progressive della band, vicine sia
ai King Crimson, sia alle derive heavy del genere, con richiami a Pain of
Salvation, Porcupine Tree e Dream Theater e già l’iniziale Beyond the line of being sembra tracciare le coordinate di questo
bell’esordio. Cyber life offre uno
sguardo più duro sulla musica della band e potrebbe essere un pezzo adattissimo
per l’attività live, mentre Alienation
deal si avvicina per intuizione melodica e pathos ad alcune atmosfere dello
Steven Wilson solista. Stairs oscilla
tra vibranti pulsioni heavy e partiture prog rock, con le tastiere di
Marchiotto che stemperano con classe la durezza del pezzo, davvero valido
esempio della qualità del gruppo. The
puppets gathering è il singolo scelto per presentare il lavoro, un viaggio
psichedelico a cui contribuisce anche la voce di Chiara Vecchi, che si amalgama
benissimo con quella di Cantele e con il contesto sonoro creato dai vicentini. Inner tide è una crepuscolare e delicata
ballata, prima del ritorno a sonorità più rock con Fanciful wonder, altro brano piuttosto interessante e che rimarca
l’amore per un certo progressive metal a stelle e strisce. Seasons mostra delle gradevoli trame, tenui e piuttosto morbide,
prima dell’efficace finale di Cosmic box
#9, intrigante chiusura di un disco che potrebbe incuriosire sia gli amanti
del prog metal che quelli più affini a sonorità settantiane. (Luigi Cattaneo)
The puppets gathering (Official Video)
lunedì 17 dicembre 2018
AFAR COMBO, Majid (2018)
Il nome del gruppo
rimanda all’Africa e alle popolazioni nomadi, ispirazione del quartetto (Mirko
Cislino alla tromba, Alan Malusà Magno alla chitarra, Roberto Amadeo al
contrabbasso e al basso e Marco D’orlando alla batteria e alle percussioni) per
Majid, secondo album intriso di jazz,
rock e world, il cui fine lavoro di scrittura della band è il collante per le
varie anime del progetto. Rokìa è
l’apertura esemplificativa, vivace e brillante traccia in cui Cislino e Magno
sono autori di momenti individuali sempre ben sostenuti da una sezione ritmica
in grande forma. La breve In fila
introduce l’ottima Paesaggio, momento
dallo sviluppo drammatico, molto suggestivo nell’approdare ad atmosfere che
hanno la forza del saper descrivere, attraverso un lirismo che è sì legato alle
radici del jazz ma è contemporaneamente capace di mutare pelle e di sporcarsi
con suoni variegati e funzionali al progetto (il rock ma pure il blues). Detto al mare torna su lidi maggiormente
esuberanti, oserei dire diretti, soprattutto nell’incedere della tromba di
Cislino, seppure non è da meno il solo più rock di Magno. L’oracolo ha invece un mood riflessivo, quasi da soundtrack, un
alternanza di approcci affascinanti, seducenti nel loro creare combinazioni e
sguardi differenti, un filo sottile che lega anche la title track, uno sguardo
lontano verso un continente carico di magnetismo, punto di partenza per
sviluppare un discorso che cerca di collocare tradizione e ricerca in un unico
catino. Barca a vela è un altro
episodio da colonna sonora, quella di qualche film di Pupi Avati, quando la
musica e le inquadrature hanno la capacità di descrivere più di mille parole. Ferrage è un motivetto trascinante e
giocoso, prima del finale di Bulga Bulga,
che sottolinea nuovamente tutte le caratteristiche della band e conclude in
maniera convincente un’opera consigliata non solo agli amanti del jazz ma anche
a quelli del progressive, che potrebbero trovare in Majid non poche sorprese. (Luigi Cattaneo)
Paesaggio (Video)
venerdì 14 dicembre 2018
IVANO FOSSATI, Il grande mare che avremmo traversato (1973)
Ivano Fossati, da
sempre inserito nella corrente progressiva più per il suo essere stato il primo
cantante dei Delirium, che per reali meriti prog della sua carriera da solista,
realizzò, dopo aver abbandonato il gruppo genovese, Il
grande mare che avremmo traversato nel 1973 e Poco prima dell’aurora in coppia con Oscar Prudente l’anno
successivo. Ma andiamo con ordine. Il
grande mare che avremmo traversato, il primo da solista, è uno di quei
lavori che può causare diatribe tra chi lo considera un ottimo punto di
partenza e chi lo vede come un disco ancora poco personale. La verità, come
spesso accade, potrebbe stare nel mezzo. Perché se è vero che nel complesso
appare un po’ acerbo, è anche vero che non mancano momenti affascinanti, degni
di nota e sopra la media. D’altronde Fossati prosegue nella direzione
precedente al suo esordio, quel Dolce
Acqua a nome Delirium che era pregno di prog folk acustico, che qui però
viene innervato da forti influenze jazz, soprattutto quello brasiliano di
Deodato (la strumentale e lieve Jangada
ma anche Canto nuovo), con il flauto,
la chitarra classica e il Fender Rhodes assoluti protagonisti, una sezione
d’archi di 18 elementi, un ottetto di fiati e l’apporto di Marco Ratti al
contrabbasso (elemento di spicco del jazz italiano). Il mare, come dice il
titolo, è l’elemento cardine e continuo a cui rivolgersi, non solo quello della
sua Genova, ma anche quello del Brasile (ne è un esempio Da Recife a Fortaleza). La title track (divisa in tre parti) e la
stupenda All’ultimo amico sono gli
attimi in cui emerge proprio di più quel suo passato da poco abbandonato e sono
tra i brani migliori della sua iniziale carriera in solitaria. Pur non convincendo
nella sua totalità, Il grande mare che
avremmo traversato è quindi un album dove affiorano le capacità
dell’artista di creare piccoli bozzetti evocativi e malinconici, dove
traspaiono le varie anime musicali del compositore, che poi si evolveranno in
maniera più organica negli anni a venire, che consacreranno Fossati come uno
degli autori più intelligenti del panorama nostrano. (Luigi Cattaneo)
giovedì 13 dicembre 2018
ELISIR D'AMBROSIA, Elisir D'ambrosia (2018)
Conosco Marco Causin da
più di vent’anni, da quando ragazzini ci copiavamo le audiocassette per poi
discuterne a scuola con l’enfasi tipica degli adolescenti. Già allora Marco
suonava la chitarra e da lì a poco formò i Soul Mirror (qualche raro reperto è
visibile su YouTube), gruppo che però non arriverà a pubblicare alcun album. Si
potrebbe dire che Elisir D’Ambrosia nasce
proprio in quegli anni, dalla voglia di comunicare attraverso la musica. Un
percorso lungo che ho seguito da vicino e che mi ha portato a conoscere i pezzi
del disco prima ancora che fosse ufficialmente pronto qualche mese fa e che
vede oltre al chitarrista veneto (nipote di Claudio Causin, che i più curiosi
ricorderanno nei Forzanove di Autoanalisi)
la partecipazione di Alessio Uliana alle tastiere (membro anche dei Virginian),
Riccardo Brun al basso, Andrea Stevanato alla voce e Simone Sossai alla
batteria (già con i bravissimi Lamanaif). Ambrosia
è il classico inizio progressivo, un ottimo strumentale tra accelerazioni
quasi hard e tempi dispari, prima di Cenere,
otto minuti che si sviluppano tra parti aggressive, a cui contribuisce il
cantato ruvido di Stevanato, frangenti melodici e momenti strumentali di ampio
respiro tra prog e psichedelia, una sintesi davvero azzeccata delle anime
compositive di Causin. Cardiologia
ospita Riccardo Scivales (tastiere) e Paolo Ongaro (percussioni e fischietto)
dei Quanah Parker, altra grande band del veneto, e se la prima sezione ha
accenni cantautorali con parti anche recitate, la seconda sembra omaggiare in
maniera convincente Elegant Gipsy di
Al Di Meola. Dimensione deserto e Libero di volare nel vento formano una
sorta di suite in cui si evincono tutti gli elementi cardine del progetto, tra
spoken word, cura essenziale per l’aspetto testuale, tappeti tastieristici,
hard prog, fughe strumentali e una vocalità aspra, non sempre a fuoco ma dotata
di un timbro particolare e che ben si lega con la struttura dei brani. Piano piano è una ballata cantautorale,
malinconica e di spessore, nelle intenzioni fa il paio con Luna, pezzo però che non
mi ha convinto del tutto e che risulta essere il meno riuscito di questo
esordio. Inoltre Stevanato sembra essere più a suo agio in trame come la
successiva Tenebra, un dark prog di
cui ha curato anche l’interessante testo e che chiude egregiamente un esordio
che mostra una band dotata di intuizioni e ottime doti tecniche, al servizio di
una scrittura trasversale che sottolinea il background variegato di Causin e
dei suoi compagni di avventura. (Luigi Cattaneo)
Cardiologia (Video)
giovedì 6 dicembre 2018
ORPHAN SKIN DISEASES, Dreamy Reflections (2018)
Debutto per gli Orphan
Skin Diseases, band formata nel 2015 da Massimiliano Becagli, batterista già in
forza nei No Remorse e completata da Gabriele Di Caro (voce ex Sabotage e
Outlaw), Juri Costantino (basso ex Creation) e David Bongianni (chitarrista passato
dai Virya e dai Little CB). Lo stile è un crossover di metal, hard rock,
alternative e grunge, tutte influenze che riescono a stare bene insieme,
bilanciate da musicisti di esperienza e capaci di creare brani che coniugano
potenza e melodia, in un crescendo di soluzioni catchy ben sviluppate e
soprattutto non scontate. Dreamy
reflections, uscito per LogiciLLogic Records, è la conferma di come sia
vitale l’underground italico, sempre poco celebrato ma artefice di prove di
spessore come questa, un racconto di settanta minuti che parte da subito
fortissimo con la potente Into a sick
mind, perfetta per aprire l’album e magari anche i live del quartetto. Punte
progressive colorano la malinconica The
storm e la suite conclusiva Just one
more day, divisa in tre parti e tra i momenti più coinvolgenti dell’album,
mentre puro e semplice hard rock è Awake.
As a butterfly grub è un energico
alternative rock, prima di Sorrow &
Chain, vigorosa song di matrice heavy e di Waves, che presenta qualche notevole trama thrash metal,
soprattutto nei riff strutturati da Bongianni e nelle ritmiche decise della coppia
Costantino-Becagli, davvero pregevoli nel far comprendere come i toscani
abbiano parecchie cartucce da sparare, per quello che è un esordio interessante
e che meriterebbe di essere apprezzato senza essere relegato nel folto
sottobosco delle piccole produzioni. (Luigi Cattaneo)
Official Album Trailer
sabato 1 dicembre 2018
CONCERTI DEL MESE, Dicembre 2018
Sabato 1
·Kaprekar's Constant al Giardino di Lugagnano (VR)
·Forza Elettro Motrice a Milano
·A.Tagliapietra + Saint Just a Afragola (NA)
·L’Ira del Baccano a Roma
·Dancing Knights a Roma
·Arca Progjet a Torino
·Rinunci a Satana? al Bloom di Mezzago (MB)
Martedì 4
·The Forty Days a Empoli (FI)
·Massimo Giuntoli a Milano
Giovedì 6
·Osanna + Annie Barbazza ad Afragola (NA)
Venerdì 7
·Osanna ad Albanella (SA)
·Gabriel Knights a Roma
·Barock Project a Roma
Sabato 8
·Napoli Centrale a Castelfranci (AV)
·Labirinto di Alice a Montebelluna (TV)
Mercoledì 12
·Ian Anderson a Bologna
·Massimo Giuntoli a Settimo Milanese (MI)
·The Winstons a Foligno (PG)
Giovedì 13
·Ian Anderson a Reggio Emilia
·The Winstons a Roma
Venerdì 14
·Lingalad a Sovere (BG)
·Of New Trolls a Napoli
Sabato 15
·Asia Minor a Milano
·Acqua Fragile a Lugagnano (VR)
·Sona et Labora a Popiglio (PT)
·Liberae Phonocratia a Milano
·Goblin + Balletto di Bronzo a Afragola (NA)
·Ozone Park a Cagliari
·Kaprekar's Constant al Giardino di Lugagnano (VR)
·Forza Elettro Motrice a Milano
·A.Tagliapietra + Saint Just a Afragola (NA)
·L’Ira del Baccano a Roma
·Dancing Knights a Roma
·Arca Progjet a Torino
·Rinunci a Satana? al Bloom di Mezzago (MB)
Martedì 4
·The Forty Days a Empoli (FI)
·Massimo Giuntoli a Milano
Giovedì 6
·Osanna + Annie Barbazza ad Afragola (NA)
Venerdì 7
·Osanna ad Albanella (SA)
·Gabriel Knights a Roma
·Barock Project a Roma
Sabato 8
·Napoli Centrale a Castelfranci (AV)
·Labirinto di Alice a Montebelluna (TV)
Mercoledì 12
·Ian Anderson a Bologna
·Massimo Giuntoli a Settimo Milanese (MI)
·The Winstons a Foligno (PG)
Giovedì 13
·Ian Anderson a Reggio Emilia
·The Winstons a Roma
Venerdì 14
·Lingalad a Sovere (BG)
·Of New Trolls a Napoli
Sabato 15
·Asia Minor a Milano
·Acqua Fragile a Lugagnano (VR)
·Sona et Labora a Popiglio (PT)
·Liberae Phonocratia a Milano
·Goblin + Balletto di Bronzo a Afragola (NA)
·Ozone Park a Cagliari
Mercoledì 19
·The Winstons a Milano Venerdì 21 ·Twinscapes a Lugagnano (VR) ·Marble House a Bologna ·Delirium IPG a Faenza (RA) ·OAK a Roma ·PFM a Castellana Grotte (BA) ·Arturo Stàlteri a Brindisi ·Höstsonaten a Chiavari (GE) Sabato 22 ·Aldo Tagliapietra a Lugagnano (VR) ·Frank Sinutre a Cesena Lunedì 24 ·Frank Sinutre a Lonigo (VI) Giovedì 27 ·Mezz Gacano a Palermo Venerdì 28 ·Napoli Centrale a S. Ambrogio (TO) Lunedì 31 ·Of New Trolls a Porto Ercole (GR) | |
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CLAUDIO FASOLI, Bodies (1990)
Tempo di ristampe per
Claudio Fasoli, che grazie al lavoro dell’Azzurra Music riporta a galla un
album del 1990, Bodies, registrato in
quartetto con l’ausilio di Mick Goodrick alla chitarra, Palle Danielsson al
contrabbasso e Tony Oxley alla batteria. Otto brani segnati da un accorato
interplay tra il sax del leader e il sottovalutato chitarrista, sospinto
dall’estro di Goodrick e dal tocco delicato ma deciso del suo compagno ritmico,
musicisti d’oltreoceano che rimarcavano la volontà di Fasoli di allargare il
raggio d’azione, sospinto anche dalla New Sound Planet, l’etichetta con cui
incise quasi 30 anni fa il disco. Proprio la scelta di Goodrick appare
determinante nella buona riuscita del prodotto e sono le parole stesse di
Claudio a confermarlo. Sapevo che la
scelta di invitare Tony avrebbe comportato uno sviluppo della musica in un
senso assai diverso da quello che avevo in mente all’inizio. Ma, oltre a
incuriosirmi molto, mi attraeva il suo modo spettacolare di essere
imprevedibile … (dal libro Inner
sounds, nell’orbita del jazz e della musica libera. Agenzia x, 2016).
In effetti il batterista
appare elemento originale e con elementi swing, capace di districarsi nella
costruzione disciplinata di Bodies e
ne sono esempio brani come Navel,
sperimentale e minimale, con tanto di chitarra synth suonata ottimamente da
Goodrick o l’iniziale Legs, armoniosa
introduzione e tra le migliori del disco. Buonissimi gli spunti di Palle e di
Mick in Belly, pezzo di valore
all’interno di un quadro generale sempre di livello, confermato dalla
creatività senza catene di Neck.
Perché non c’è solo Fasoli a fare la voce grossa, ma un quartetto dinamico,
costruito egregiamente e che rappresentava in quel momento una delle migliori
prove espressive dell’ex Perigeo. (Luigi Cattaneo)
Legs (Video)
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