Buongiorno
Luca, inizia pure a presentare, per chi non lo conoscesse, il tuo progetto Luca
& The Tautologists
È il mio disco d’esordio,
mi sono nascosto un po' dietro il monicker, ma è da 40 anni che suono. Avevo un
tributo ai Lynyrd Skynyrd, con il tempo diventato Mr. Saturday Night Special,
con i quali ho pubblicato un doppio live registrato al Blueshouse nel 2006. Con
Ruben Minuto la collaborazione è di lunga data, lui ha suonato nel mio disco,
io nel suo. Suonavamo insieme nei No Rolling Back, con la sezione ritmica dei
Ritmo Tribale, tra l’altro, oramai circa 20 anni fa. Insomma, ci conosciamo da
sempre.
Il
disco è stato composto solo da te o ti ha aiutato la band?
È stato scritto da me, è
un album molto libero, non ho seguito mode o trend mentre componevo. Ho lavorato
su tutto, booklet incluso, per rendere l’acquisto il più appetibile possibile,
dare un senso al comprare il CD. Ci sono tutti i testi, per me molto
importanti. Non disdegno il digitale ma preferisco usarlo come vetrina, perché lo
trovo molto dispersivo.
Tu
però in ambito musicale hai fatto anche il promoter, un ruolo diverso ma
presumo molto significativo.
Dal 2008 al 2013 ho
gestito un’agenzia, la Curtis Loew, con cui ho portato musicisti americani in
Europa per la prima volta. La passione con cui lavoravo in quel periodo aveva
fatto sì che riuscivo ad organizzare anche 5 tour al mese. Accettavo richieste
di continuo, giravo con i musicisti, suonavo con loro. Sono stati 5 anni
indimenticabili, riuscimmo ad organizzare, con Vincenzo Tropepe (da poco è
uscito il suo debutto n.d.r.), amico e grandissimo musicista, anche date nel
Sud Italia.
Quando
e come nascosto i brani del disco?
Intanto il titolo. Vol.
II perché nel 1999 scrissi le canzoni per un primo album, che ogni tanto
suonavo con i No Rolling Back, iniziando a prendere dimestichezza con la mia
voce. L’anno scorso ad agosto presi il Covid e rimasi isolato dal resto della
famiglia, mi sono attrezzato e ho registrato più di 30 demo, tra brani molto
vecchi e inediti. Mi sono ritrovato in mano con praticamente 3 album, ma ho
preferito inserire in questo lavoro alcuni tra i più recenti. Inoltre ho
scoperto nell’occasione di riuscire a scrivere testi con una certa semplicità. Partendo
dalla musica mi creavo immagini che poi esploravo concettualmente. Può anche
succedere che il testo mi sposti la direzione musicale pensata in origine.
In
studio quindi sei arrivato con i brani già completi?
Abbiamo fatto sei prove
all’Appartamento Sonoro di Arluno, prima avevo dato ai musicisti del disco
delle demo, prevalentemente chitarra e voce, ma la struttura era fatta, poi
chiaro che sono venute fuori idee lavorando in gruppo. Mi preme presentare i
musicisti, con me c’erano Ruben Minuto (basso, mandolino, chitarra), Leandro
Diana (chitarra) e Deneb Bucella (batteria). Successivamente siamo andati a
registrare con Larsen Premoli. E poi c’è la figura di Ricky Maccabruni,
tastierista presente in otto brani, che ha registrato in remoto. Ne è venuto
fuori un disco molto vario, composito, non ho guardato ad un genere solo
insomma. C’è sicuramente un’atmosfera un po' urbana, newyorkese diciamo.
Un’ultima
considerazione riguardo ai testi, a cui hai detto di aver dato un certo peso. Quali
sono quelli a cui ti senti più legato in qualche modo?
I testi sono personali ma
non del tutto autobiografici, ho cercato di scrivere testi che possano arrivare
alle orecchie di chi ascolta. Uno dei brani a cui sono più legato e Paris Airport 77, un ricordo che parte
dalla musica e che ha preso forma man mano che scrivevo il testo. Quell’anno
andai a Parigi con i miei genitori, ricordo di queste vecchie Polaroid ma da questo
fatto parto poi per raccontare come i nostri genitori subivano il fascino della
modernità, della tecnologia che poteva risolvere ogni problema, lo subivano
probabilmente ancora più di noi che siamo immersi in questo mondo. È un ricordo
tenero di questa loro illusione, di mio padre e dalla sua generazione. Things got their name from a spell descrive
invece un mio risveglio, alle 5 del mattino, c’era questa luce sospesa e ho
avuto la sensazione magnifica che la stanza prendesse vita, che le foglie delle
piante venissero verso di me, che i libri sugli scaffali si aprissero, come se
ci fossero dei mondi nascosti. The man in
the wool overcoat parla di un vecchio edicolante con il suo cappotto di
lana, un omaggio sincero a un chiosco di giornali di viale Espinasse a Milano
dove compravo fumetti.