sabato 29 marzo 2014

EMPTY DAYS, Empty Days (2013)


Nuovo progetto per Francesco Zago, versatile e curioso chitarrista già impegnato con Yugen, Not a Good Sign, Stormy Six e Spaltklang. Empty days rappresenta però un unicum nel suo percorso artistico, molto più vicino alla musica colta contemporanea che al prog (peraltro da lui sempre trattato allontanandosi dai clichè). L’AltrOck, insieme allo stesso Zago, produce un disco non facilmente digeribile e poco catalogabile all’interno di un genere, come spesso accade per l’etichetta milanese. Ci vuole pazienza e dedizione all’ascolto per cogliere suoni e sfumature di questo lavoro, pensato per un pubblico attento e alla ricerca di novità. Aiutato da fidi collaboratori come Paolo “Ske” Botta alle tastiere, Jacopo Costa al vibrafono, Maurizio Fasoli al piano, Giuseppe Olivini alle percussioni e al theremin e Pat Moonchy alla parte elettronica, ospita la vocalista dei Thinking Plague, Elaine Di Falco, anche lei sempre bisognosa di scavare nel profondo nell’avanguardia. La Di Falco, in realtà, presta la sua voce in 7 episodi (la metà dei complessivi) e sono quelli più riusciti, perché i restanti strumentali più che vere composizioni sono tracce formate da suoni notturni e impercettibili (la conclusiva This Night wounds time) o assalti rumoristici (la fitta coltre di Waiting for the crash). Musica da camera, forma canzone rivisitata con la sensibilità di un fuoriclasse come Zago e ne sono un esempio l’opener Two views on flight (con tanto di violoncello suonato da Bianca Fervidi) o la delicata Running water, sorprendenti castelli armonici di grande spessore artistico. Come già aveva fatto Sting qualche anno fa (Songs from the Labyrinth del 2006), anche Zago omaggia il genio di John Dowland (grande compositore vissuto tra il 1500 e il 1600), prima con Flow my tears, struggente quadretto in cui compare il soprano Rachel O’Brien e poi con In Darkness let me dwell, altro momento di punta dell’album. Suggestive A dark Vanessa (testo di Nabokov) e Coming Back Home, già straordinaria sull’esordio dei Not a Good Sign (chi non lo avesse lo recuperi immediatamente!) e qui riproposta in una bella versione più scarna e semiacustica. Unico riferimento al progressive, oltre ad alcune parti di chitarra che rimandano a Robert Fripp e ai King Crimson, per un disco indirizzato prevalentemente agli appassionati della musica contemporanea. Zago mostra ancora una volta di avere creatività e voglia di osare, per un risultato forse a tratti imperfetto ma estremamente affascinante. (Luigi Cattaneo)

Running Water (Video)

giovedì 27 marzo 2014

IL FAUNO DI MARMO, Canti, Racconti e Altre Battaglie (2013)


Il Fauno di Marmo è l’ennesimo nome prog  ispirato ad uno dei tanti meravigliosi sceneggiati che potevamo ammirare nei ’70, a sua volta tratto dal romanzo di Nathaniel Hawthorne. Dopo le tinte gotiche che l’Impero delle Ombre ha donato ai Compagni di Baal (serie francese e disco omonimo dei salentini) e la rivisitazione di alcune colonne sonore di quei prodotti a nome L’ombra della Sera (un affascinante e personale progetto di Fabio Zuffanti), ecco che Il Fauno di Marmo (ex The Rebus, band con all’attivo 2 album in studio e un live) ci propone un disco totalmente rivolto al passato e che potrebbe tranquillamente essere uscito nel 1973. Pregio o difetto? Dipende da quello che si cerca attualmente nel progressive. Nuovi confini da esplorare o riproposizione di un sound oramai quarantennale? Certo è che i ragazzi non sono degli esordienti e questo trapela da ogni singola nota che, per dovere di cronaca, fa di Canti, Racconti e altre Battaglie un album davvero piacevole e zeppo di spunti interessanti. Luca Sterle (voce, flauto, sax), Valerio Colella (chitarra), Francesco Bonavita (tastiere), Alberto Ballarè (basso) e Luca Carboni (batteria), non fanno nulla per evitare citazioni e omaggi. Osanna, Nuova Idea, Delirium, Biglietto per l’inferno (e compagnia suonante), tutti citati tra le trame di un viaggio vintage che avrà sicura e duratura presa su chi è legato a certi nomi storici della corrente italiana. La band, pur non proponendo novità stilistiche, convince e a tratti entusiasma, appare matura e coesa verso l’obiettivo, con brani trascinanti come l’opener Benvenuti al Circo (con un bellissimo messaggio animalista) in cui è possibile apprezzare anche le doti di Simone D’Eusanio al violino. Hop Frog è uno dei momenti più intensi, una piccola suite che celebra l’immaginario prog con un testo di stampo fantasy, le consuete tastiere e un approccio hard che non guasta affatto. Contagiose le godibili melodie di Magic Kazoo e Madre natura (con degli ottimi inserimenti flautistici di Sterle) e la strumentale Nova Res. Non mollare mai, impreziosita da un fine lavoro di hammond, sembra uscire da un vecchio vinile, mentre la cover di Un villaggio, un’illusione di Quella Vecchia Locanda, non fa altro che confermare da dove arrivi l’ispirazione compositiva. Valide anche La battaglia di Kosovo-Polje, con il suo andamento folk e il finale dedicato a Dorian Gray,uno dei pezzi meglio riusciti tra i presenti e degna chiusura di un lavoro passionale e verace. (Luigi Cattaneo)

Dorian Gray (Video)
  

martedì 25 marzo 2014

EXKGB, False Hope Corporation (2013)


Si attendeva il ritorno di questo trio veneto dopo l’interesse che aveva suscitato la pubblicazione del debut I Putin del 2010. False Hope Corporation non tradisce le aspettative e mostra una band davvero solida e in grado di focalizzare al meglio le esperienze vissute in questi ultimi anni. Splendida l’idea di registrare l’album come se fosse un vinile, con lato A e B suddivisi in 2 macrotracce dove all’interno trovano spazio 10 brani (5 per facciata). Non si può saltare da un pezzo all’altro, bisogna ascoltare tutto il lavoro in maniera consequenziale, proprio come si faceva all’epoca del 33 giri. Come accadeva nel periodo d’oro del progressive, gli ExKgb tentano la via di una fusione tra generi diversi ma che risultano, almeno qui, non in contraddizione. Approccio prog, ritmiche funky, furia punk e una complessità stilistica che mostra una caratura tecnica di alto livello. Alberto Stocco (batteria e percussioni), Emanuele Cirani (Chapman Stick, basso e voce) e Mike 3rd (chitarra), uniscono vena sperimentale, mai ridondante o fine a sé stessa con intuizioni melodiche avvicinabili ad una più comune forma canzone. I continui cambi di tempo, le ritmiche dispari e le soluzioni virtuose rimandano ai Primus di Les Claypool e ai lavori di Tony Levin, soprattutto per il Chapman di Cirani, ma anche al mood che si poteva trovare in alcuni dischi di Living Colour e Faith No More. È un piccolo trip False Hope Corporation, in cui convogliano le idee folli dei tre, sempre impegnati nel loro percorso di denuncia a colpi di Rock. Un platter che ha bisogno di ascolti attenti, obbligatoriamente non distratti per venire al meglio compreso, perché la carne al fuoco è davvero tanta e si rischia di perdere il filo del discorso. La band ha impeto, voglia di sorprendere e lo fa attraverso momenti come Blindness or else, le aperture di Hold your breathe o le trame funk della title track. Il disco non ha grossi cali di tensione e convince per buona parte della sua durata, mostrando una continuità di valore con quanto avevano già espresso qualche anno fa. Consigliato a chi ha voglia di allontanarsi da schemi precostruiti che non rappresentano più una sorpresa. (Luigi Cattaneo)

Al seguente indirizzo è possibile ascoltare i due lati del disco e acquistarlo in digital download.

domenica 23 marzo 2014

CAMERA CHIARA, Camera Chiara (2013)

Non è più tempo di Naples Power. Non c’è più quella bella scena, così personale e variopinta che includeva, giusto per citare qualcuno, Osanna, Napoli Centrale, Balletto di Bronzo, Toni Esposito e Pino Daniele. Certo qualcosa è rimasto, gli Osanna hanno rinnovato la loro proposta, James Senese continua con la sua miscela esplosiva di jazz e rock, Gianni Leone appare più in forma che mai e Pino Daniele, soprattutto in sede live, sta conservando quello spirito unico e particolare dei gruppi partenopei di inizio anni ’70. Ma non ci sono solo le leggende. Nell’underground ci sono decine di gruppi che ci provano, se non a risvegliare certe intuizioni, a crearne di nuove. Basti pensare all’ethno jazz rock degli straordinari Slivovitz, al metal prog di Ephesar e Soul Secret, ai giovanissimi La Washing Machine o al nuovo percorso intrapreso da Sophya Baccini (già voce degli storici Presence). In questo contesto si inseriscono alla perfezione i Camera Chiara con questo notevole disco d’esordio che si avvicina al suono dei vecchi lp dei Pink Floyd e a quello più attuale dei Porcupine Tree, forse le due influenze maggiormente riscontrabili. Ma non siamo nel campo del già sentito o dell’omaggio pedissequo. Nelle trame esclusivamente strumentali dei salernitani emerge anche l’amore per quella stagione dorata del progressive nostrano, con brani sempre ottimamente suonati ed arrangiati e doti compositive non trascurabili. Bravissimi nel creare situazioni sì articolate ma mai pretenziose o eccessive, mostrano come il dono della comunicazione non sia legato per obbligo alla forma canzone. Tutto l’album è caratterizzato da spunti melodici e psichedelici davvero pregevoli, dove se pur emergono le singole qualità dei musicisti presenti (Francesco Lembo alle tastiere, Antonio Pappacoda alla batteria, Danilo Lupi al basso, Vincenzo Manzi alla chitarra), quello che più convince è il lavoro d’insieme ricco di particolari, che produce un disco piuttosto ambizioso e figlio di una formazione già matura per palcoscenici di rilievo. Giusto citare pezzi come Chiaroscuri, 11 minuti in cui ci si perde tra atmosfere dense e umbratili cambi di umore, la delicata Nel tuo mondo e l’avvolgente clima autunnale di Il Nuovo e il Vecchio Giorno. Disco altamente consigliato agli amanti del genere. (Luigi Cattaneo)

Al seguente indirizzo è possibile acquistare l'intero album.

martedì 18 marzo 2014

GRAN TORINO, Fate of a Thousand Worlds (2013)


Tornano anche i Gran Torino dopo il fortunato esordio del 2011 e confermano tutte le qualità di cui avevamo già parlato proprio da queste pagine. La band sceglie ancora una volta la via di un progressive rock strumentale e dai contorni hard e non si può che apprezzare tale direzione, soprattutto in virtù di un sound fresco e vitale. Alessio Pieri (tastiere), Fabrizio Visentini Visas (basso), Gian Maria Roveda (batteria) e Leonardo Freggi (chitarra) ci conducono in un bel viaggio dove non mancano echi psichedelici e richiami ai grandi Rush. Questa è la strada su cui si muovono i veronesi, in maniera piacevole e coinvolgente, proprio come era già accaduto con Gran Torino Prog. Fate of a Thousand Worlds è la colonna sonora di un viaggio, quello di un’astronauta nell’universo, con tutte le sue paure e le sue emozioni e nasce da un racconto di Paolo Gadioli. Lo stile si basa in special modo sull’incontro tra la chitarra di matrice hard e le atmosfere sognanti delle tastiere e del piano, con una bella sezione ritmica, profonda e piena di groove. Pieri firma due tra i pezzi migliori, le iniziali Child of the Stars e Absolute Time, una splendida doppietta a cui segue un altrettanto valida ed epica The battle of Velasquez in odore di Emerson Lake & Palmer. Tra i pezzi migliori anche Empty Soul, con quel tocco vintage delle tastiere che proprio non guasta e la genesisiana The Short Dream. È un album che con il passare degli ascolti ti conquista, con quelle melodie che ti entrano sottopelle e agiscono da chorus veri e propri, forme che ritornano e lasciano trasparire una cura per il dettaglio non indifferente. Chiaro che qui non troviamo lasciti avanguardistici o soluzioni particolarmente nuove ma brani come End of a Planet o la title track hanno una forza comunicativa che mostrano consapevolezza e determinazione. Fate of a Thousand Worlds ha tutte le carte in regola per conquistare sia gli amanti del prog settantiano che quelli più vicini a Dream Theater e affini. Anzi, direi che è quasi impossibile non trovi appoggio da qualunque amante di queste sonorità! (Luigi Cattaneo)

Child of the Stars (Video)


        

 

lunedì 17 marzo 2014

SIGMUND FREUD, Illusioni e il racconto di Claudio Ciuffa


È sempre bello poter ascoltare qualcosa che arriva direttamente dagli anni ’70, da uno dei tanti gruppi che all’epoca non hanno potuto dare testimonianze dirette della loro musica se non attraverso i festival che affollavano la penisola e a cui si era soliti partecipare. È la tipica storia nostalgica di band come Gli Spettri o i Quanah Parker, che hanno dovuto attendere decenni per poter realizzare un piccolo sogno. Ed è anche quella dei Sigmund Freud, band devota a strutture sinfoniche e suite come si usavano agli albori del progressive. Perché è da lì che arrivano i romani, da quella stagione in cui si cercavano nuove strade espressive e ci si allontanava da clichè abusati e già sentiti. Tutto qui richiama quel periodo. Dalle epiche trame sonore in odore di Banco del Mutuo Soccorso e Locanda delle Fate ai testi fantastici e pieni di allegorie. Probabilmente nascere nel 1972, in un Italia in cui Le Orme, la P.F.M. o i New Trolls ricevevano consensi e applausi, non poteva non portare dei giovani almeno a provarci. Claudio Ciuffa (chitarra, flauto, violino, sax soprano e autore di testi e musica) narra dell’incontro con Aldo Zambelli (tastiere): Avevo delle idee non ancora chiare, mi sentivo attraversato da suoni e melodie e tante, tante storie che mi giravano intorno,  tanti fogli riempiti di frammenti, di idee e quando incontrai Aldo, lo convinsi a venire in sala prove e cosi nacque Giochi d'Ombre. Solo successivamente entrarono in formazione Sergio Stellani (basso), Giancarlo Farulli (batteria) e Raffaele Albanesi (chitarra) per la formazione definitiva dei Sigmund Freud. E arriviamo al 2013, anno di pubblicazione di Illusioni (con line up originale ma l’aggiunta di Claudio Mazzetti alla batteria), cinque brani composti proprio nei primi anni ’70 e qui riproposti in maniera fedele per tutti i fans di un suono ancora oggi immortale e amato un po’ in tutto il mondo. Chiaro che qui il vintage si spreca e chi cerca novità, anche minime, farebbe bene a volgere lo sguardo altrove. Tutto guarda al progressive romantico che fu, all’Italia del già citato Banco e della Premiata, passando per i decani Jethro Tull e Van Der Graaf Generator, senza dimenticare l’hard dei Deep Purple e il rock dei Who. Inutile citare un brano del lavoro, sono tutti di buon livello, ammesso che si abbia voglia di riallacciare un discorso con un sound di 40 anni fa, un po’come fatto da i liguri Il Cerchio d’Oro. Qui di seguito proponiamo una breve intervista con Claudio Ciuffa che ha fatto per noi il punto della situazione e un bel riepilogo sui primi anni di carriera del gruppo.

 - Quando nasce la band?

 

La band nasce ufficialmente nei primi anni del ’70 e precisamente nell’estate del 1972, quando incontrai Aldo Zambelli, un tastierista che veniva a passare l’estate nei castelli romani. Avevo molte idee nel cassetto e suonando con lui nacque il mio primo vero brano, Giochi d’Ombre. Decidemmo di contattare altri musicisti per mettere insieme una band e, dopo aver girato mezza città di Roma e Castelli Romani, riuscimmo a trovare ciò che cercavamo, musicisti che amavano il rock classico di quel tempo, che ascoltavano la nostra stessa musica. Arrivarono Sergio Stellani al basso, Giancarlo Farulli alla batteria e Raffaele Albanesi alla chitarra. Erano nati i Sigmund Freud. Mettemmo su altri 4 brani e iniziò la nostra avventura.

 

- Avevate una buona attività live?

 

Data la particolarità della nostra musica era difficile esibirci in piazze paesane che richiedevano solo popolar music. Partecipavamo ai vari raduni rock che venivano organizzati nella capitale e in tutta la regione.

 

- Come mai nei ‘70 non avete pubblicato nulla?

 

Abbiamo fatto dei provini alla RCA, alla EMI e in altre etichette più piccole, tutte ci invitavano a comporre brani più commerciali, più orecchiabili, della durata dei soliti 3 minuti e 50 secondi! Avevamo un’età in cui è difficile prendere delle serie decisioni e non avevamo un manager che ci consigliasse la strada che potevamo seguire, così tutto rimase sospeso nell’aspettare chissà cosa, il tempo passava e il gruppo pian piano iniziò a sfaldarsi.

 

- Quando avete iniziato a pensare ad Illusioni?

 

Circa tre anni fa, grazie a Facebook ci siamo rincontrati e, dopo una pizza, abbiamo deciso di registrare un CD con i nostri vecchi brani, per pura goduria personale. Dopodiché, visto che non avevamo perso lo smalto sonoro, abbiamo deciso di realizzare un vero e proprio progetto musicale. Vorrei ringraziare il M° d’Arte Mario Roncaccia che ci ha permesso di utilizzare una sua opera, Miti, Poesia e Musica nella stampa del libretto del cd, che legava perfettamente al concetto di Illusioni. Un oceano immenso di figure reali e non, fondendo la fantasia e la realtà della musica in una sola cosa e sfociando nel grande labirinto della vita, che seppur infinitesimale, a noi pare infinito.

  

- Sono tutti pezzi dei ‘70?

 

Certo che si! Sono i pezzi originali realizzati nel 1972, ho ancora delle registrazioni che facevo durante le prove in cantina che non sono poi cosi male da ascoltare. Abbiamo voluto rifarli come li facevamo allora. 

 

- Avete pronti altri brani?

 

Stanno nascendo circa quindici nuovi brani sulle tematiche musicali che ci hanno accompagnato sino ad oggi. Restiamo degli inossidabili sessantottini vintage. Un pezzo nuovo, Nel Giardino della Fantasia, lo abbiamo proposto in anteprima nel recente concerto che abbiamo tenuto a Stazione Birra di Roma. Poi c’è Pendragon, una sorta di caccia alla volpe; Le Ali del Vento, che ho dedicato ad un ragazzo portatore di handicap; Saturn, la morte di un pianeta; Ballata, un piccolo viaggio tra regine e folletti e poi Medioeval, Talos, Andy. Credo che le idee ci siano e presto faremo ascoltare qualcosa sul nostro sito. 

 

- Siete riusciti a presentare con qualche concerto il lavoro?

 

Come ti dicevo abbiamo presentato il nostro progetto in due concerti romani a Stazione Birra e Jailbreak, al Palarockness di Genzano, al Parco Dandini a Rocca Priora e nella piazza principale di Monte Porzio Catone nei Castelli Romani.


- Che progetti avete per il futuro?

 

Abbiamo avuto un contatto con una etichetta discografica per la produzione e diffusione di Illusioni e, se tutto va bene, ci sarà una grande sorpresa per i nostri aficionados. Registreremo a breve il prossimo disco con i nuovi brani e nel frattempo inizieremo una tournée in alcuni teatri del Lazio sperando di venire a suonare anche a Milano e in altre città della nostra meravigliosa penisola.

 

 


Sito ufficiale: www.sigmundfreudmusic.com

               

 

sabato 15 marzo 2014

DEMETRA SINE DIE, A Quiet Land of Fear (2012)


La più grande fonte d’ispirazione dei Demetra Sine Die è il buio. È la prima sensazione che mi ha dato il nuovo A quiet land of fear, un ritorno dopo Council from Kaos del 2008. Marco Paddeu (voce e chitarra), Marcello Fattore (batteria), Adriano Magliocco (basso) e Matteo Orlandi (synth) si fanno carico di un suono cupo, viscerale, con richiami agli anni ’70, al dark prog, alla psichedelia acida e a gruppi attuali che comunque riprendono quella filosofia, come i monumentali Neurosis. Già l’iniziale Red Sky of Sorrow evoca immagini di sofferenza, livide, oscure. È un pezzo denso di nera atmosfera, giocato su un synth eccessivo e space a cui fa compagnia una voce che non fa altro che confermare l’immaginario dark e oscuro che pervade il sound della band. La decadente Black Swan conferma tutto questo e amplia il discorso verso una tendenza progressive che emergerà in vari momenti dell’album, mostrando con quale spirito il gruppo tenta di affrontare soluzioni di riferimento senza apparire ripetitivo o scontato. A quiet land of fear ha spazzi più hard e con il passare dei minuti aumenta l’inquietudine e il mistero, un forsennato trip verso la paura dai liguri evocata. Mentre 0 Kilometers to nothing mostra un ensemble coeso e determinato nel creare situazioni avvolgenti che richiamano ere psichedeliche e dark (Black Widow style), Silent sun ha un conturbante fascino tribale che anticipa quella perla che risponde al nome di Distances, brano pieno di spunti interessanti e che vede la significativa presenza di Roby Calcagno alla tromba, bravissimo nell’inserirsi nelle travolgenti atmosfere space del pezzo. Ottimo il finale della superba That day I will Disappear into the Sun, in cui si perdono le speranze, colpiti dai secchi riff di Paddeu e da un clima tutt’altro che rassicurante. Disco ambizioso e indubbiamente affascinante nel voler proporre un’idea di suono il più personale possibile, pur restando ancorato a stilemi settantiani da cui si abbevera senza restarne comunque intrappolato. (Luigi Cattaneo)

Distances (Video)


        

venerdì 14 marzo 2014

NUOVA LOCATION PER LAZULI & HAKEN!!!

Domenica 13 Aprile 2014. LiveForum-Assago (MI), Via Giuseppe Di Vittorio, 6. Start: 20.30.
Le due migliori band dal vivo degli anni duemila insieme per un unico indimenticabile ed irripetibile spettacolo!
È un grandissimo onore per Ver1Musica Associazione Culturale no-profit presentare l’evento più importante del 2014 in ambito progressive rock in Italia, che si terrà domenica 13 aprile presso uno dei locali cult della musica live milanese, il LIVEFORUM di Assago, situato all’interno del Mediolanum Forum di Assago, di fronte all’ingresso del Teatro della Luna e che dispone di un ampio parcheggio gratuito.
LAZULI sono una band originaria della Francia meridionale formatasi nel 1998 per iniziativa di  Claude e Dominique Leonetti. Il loro stile combina le sonorità tipiche del rock progressivo con la world music e la musica electro. La musica dei Lazuli è una miscela sapiente di stili musicali che visitano nuovi territori utilizzando strumentazione inusuale come la marimba, il corno francese, percussioni, ecc .., ma, soprattutto, facendo uso di uno strumento unico, inventato da Claude Leonetti quando a causa di un incidente motociclistico perse l’uso del braccio sinistro: il Léode (un mix tra una chitarra e un sintetizzatore).
Per i Lazuli, le canzoni sono le tele su cui si mescolano i colori per dipingere il proprio mondo. Il timbro di voce fluttuante, gioca con le parole, e fa uscire l’'uomo' in tutte le sue sfaccettature. Lazuli porta note atipiche di originalità sulla scena musicale con un fascino ed un incantesimo unico.
Gli  Haken sono uno dei suoni più interessanti che emergono dal movimento progressive moderno. Formatisi nel 2007, Haken sono una virtuosa ed eclettica progressive rock / metal band, vengono da Londra, in Inghilterra, e sono formati da alcuni dei migliori giovani musicisti del paese. Dal loro debutto nel luglio 2007 gli Haken hanno subito fatto capire l’enorme potenzialità che li ha portati in breve a fare da supporter a band come i Riverside e King’s X oltre ad esibirsi come headliner in giro per Londra, tra cui diversi sold-out presso The Peel a Kingston, uno dei più prestigiosi locali rock inglesi. Gli Haken stanno rapidamente diventando molto rispettati all'interno della comunità del progressive rock per il loro approccio unico e fantasioso, flessibile rispetto al genere musicale, che si è guadagnato elogi in tutti gli angoli del globo.
La band fonde metal con il progressive rock, attingendo influenze di band contemporanee come Dream Theater e Shadow Gallery e  icone di " vecchia scuola " come Genesis, Gentle Giant  e Queen, ma con una personalità ed un carisma che contraddistingue il loro sound tra mille, e che sul palco diventa magia pura!
Il loro ultimo disco “The Mountain” può essere tranquillamente posizionato tra le migliori produzioni mondiali di prog di sempre.
Per ulteriori info e news (anche per come associarsi), visita il sito www.ver1musica.it, oppure la pagina Facebook dell’associazione o invia direttamente la richiesta a info@ver1musica.it 



 
 

mercoledì 12 marzo 2014

OTEME, Il Giardino Disincantato (2013)


L’idea di musica contemporanea di Stefano Giannotti, deus ex machina dietro il progetto Oteme (Osservatorio delle Terre Emerse), va oltre la divisione dei generi e delle discipline. E difatti in questo Il giardino disincantato troviamo la canzone d’autore, l’avanguardia, la musica da camera, la classica, il R.I.O e il rock progressivo (ma lontano da luoghi comuni). Un laboratorio di suoni in cui ritrovi Battiato, il più recente Ske e l’onnipresente John Cage. Tutto è stato scritto, composto e arrangiato da Giannotti tra il 1990 e il 2011, un lasso di tempo che non pare abbia corroso la forza comunicativa dei brani. Giannotti (voce, chitarra, banjo, synth e una serie di strumenti atipici…) arriva a questo risultato anche attraverso l’aiuto di una serie di bravissimi musicisti, che emergono in special modo nelle trame strumentali. Sicuramente il percorso è interessante e di non facile lettura. Le tracce sono ricche di melodie rassicuranti che si mescolano con elementi poco consueti che allontanano il percorso dalla forma canzone. Uno scontro a volte sorprendente tra i particolari più cantautorali della proposta e quelli più avanguardistici, che però fa bene all’insieme concepito. Anzi, non si percepisce un distacco tra elementi differenti, quelli più colti e quelli più “pop”, perché il tutto è ben amalgamato e non pare mai costruito in maniera forzata. Splendida Sopra tutto e tutti, lunga traccia in cui troviamo Valeria Marzocchi al flauto, Nicola Bimbi al corno inglese, Lorenzo del Pecchia al clarinetto, Maicol Pucci alla tromba ed Emanuela Lari al piano, in una miscellanea di suoni che vanno dal progressive al cantautorato, un affascinante racconto in cui Giannotti ci catapulta con fare certo e consapevole. I momenti più entusiasmanti sono forse quelli strumentali, Caduta massi, Tema dei campi, la title track e Terre emerse, frangenti più vicino al Rock In Opposition dove Giannotti libera la fantasia con i tanti strumentisti che ha a sua disposizione. La forma canzone è invece richiamata in Dal Recinto, traccia per voci e chitarra e Palude del Diavolo, ombrosa e imperniata sul clarinetto, la tromba e il corno, due momenti davvero di buon livello. Molto particolare Per mano conduco Matilde, brano dove il protagonista è il componium suonato da Giannotti, che descrive una giornata passata nei campi, alla ricerca di pozzanghere e fango fresco. Disco pieno di idee messe a fuoco e ben congegnate che travalicano il concetto di progressive, proprio perchè l’autore ha preferito non prendere in considerazione una sola direzione, in modo da donare alla sua arte una forma quasi indefinita. (Luigi Cattaneo)

Palude del Diavolo (Video)

MAXOPHONE, Live in Tokio (2013)


Qualunque appassionato di progressive, non solo italiano, conosce i Maxophone. Sarebbe strano il contrario. Perché quasi quarant’anni fa, nel 1975, i milanesi pubblicarono uno degli album più significativi della stagione d’oro del prog, corollario di quanto si era già fatto in quel campo ma suonato e creato con una perizia davvero notevole. Un campo in cui incontravi la raffinatezza melodica dei New Trolls e le armonie dei Gentle Giant. Peccato che i tempi iniziavano ad essere nefasti per un certo genere musicale e di lì a poco si sarebbero perse le tracce anche di questo incredibile complesso. Chiaro che un nome del genere non poteva essere esentato dal ripresentarsi perlomeno in veste live in questo periodo di revival e reunion varie. In realtà solo Sergio Lattuada e Alberto Ravasini sono della partita, mentre gli altri sono tutti nuovi membri. Credibili o meno, sta di fatto che i nuovi Maxophone dal vivo appaiono calibrati e per nulla intimoriti da paragoni ingombranti con un passato luminoso. Anzi, affrontano la sfida con rinnovato vigore ed entusiasmo (chi li ha visti in azione sa di cosa parlo). E qui, in questo Live in Tokio (etichetta Aereostella), registrato al Club Città di Kawasaki il 26 aprile 2013 (all’interno dell’Italian Progressive Rock Festival), la band ripropone come è logico che sia l’intero album d’esordio. Vengono meno i tanti fiati che il gruppo utilizzava negli anni ’70 e quelle ampie sezioni strumentali vengono prese in carico dalle tastiere di Lattuada su cui si innesta la chitarra hard di Marco Tomasini. Chiaro che viene meno il calore che possono darti strumenti come il clarinetto, il sax o la tromba a favore di un maggiore impatto d’insieme, per un suono comunque meno vintage e più proiettato nel 2014. Il valore dei singoli brani è talmente alto che l’effetto non dispiace e i Maxophone così facendo evitano in qualche modo l’effetto dèjà vu. Le cose più interessanti, soprattutto per chi conosce alla perfezione il repertorio dell’ensemble, sono l’inedita L’isola (ma del 1971), Our guilding star (che è la versione inglese di Il fischio del vapore, un raro 45 del 1977) e Guardian Angel, un altro brano mai pubblicato dalla band e ottima base di partenza per un nuovo lavoro. Che davvero attendiamo con impazienza e curiosità. (Luigi Cattaneo)