Pubblichiamo la recensione del rarissimo Apocalisse dei Paxora e la successiva intervista al loro bassista, da poco scomparso, Giuseppe Di Stefano. Entrambe furono pubblicate su Contrappunti, trimestrale del Centro Studi Progressive Italiano nel giugno 2010.
I Paxora, come
tanti gruppi progressive dei ’70, sono stati autori di un unico disco, anzi di
una suite di 30 minuti circa, che per di più non è mai stata pubblicata da
nessuna casa discografica. Un prodotto quindi che mi è arrivato grazie alla
caparbietà di Giuseppe Di Stefano, bassista della band, che ha conservato per
più di 30 anni questa registrazione amatoriale, dapprima in cassetta e poi in
cd. Non si poteva non dare spazio a cotanta passione!
Si parte con Intro (faro), straniante e brevissima
composizione che ci conduce alla successiva Intro
(groove), che fa leva sul suono incessante del basso di Di Stefano, sulla
chitarra effettata di Massimo Torboli e sulla batteria in lontananza di Massimo
Minichiello, per quello che rimane un episodio free all’interno del disco
stesso, una sorta di introduzione parte seconda leggermente più lunga ed
articolata.
Intro
3 (pink) è
il primo vero brano del disco, un momento di chiara impronta psichedelica, che
soprattutto nei suoni di chitarra ricorda i Pink Floyd. Il pezzo prende vita
nel momento in cui subentra la sezione ritmica a sostenere l’azione del bravo
Gianguido Bruno, che si amalgama molto bene con l’altro chitarrista. Nei suoi
oltre 5 minuti il brano si avventura, nella seconda parte, in lidi più vicini
al progressive strumentale che alla psichedelia.
Riff
è
un brano dal retrogusto jazz molto piacevole ed è una sorta di introduzione
alla successiva composizione. Peccato perché il brano ha in sé un’idea melodica
davvero valida che poteva essere sviluppata in maniera adeguata, invece risulta
solo un momento di collegamento. Pretema-tema
è un brano di valore che parte in maniera soffusa, per poi esplodere
improvvisamente con la partecipazione di tutta la band che mostra di avere una
certa compattezza. Anche qui però si ha la sensazione che si potesse articolare
maggiormente la composizione, che invece si esaurisce troppo frettolosamente.
Ritornello
(colori vari),
dal vago sapore jazz, mette in mostra le qualità di Bruno, che esegue un solo
di grande intensità, accompagnato egregiamente dalla sezione ritmica. Si tratta
di uno dei momenti più fluidi di tutta la suite, in cui si sviluppano idee e
sonorità davvero interessanti. Se tutti i brani avessero avuti questa intensità
ci saremmo trovati di fronte ad un lavoro molto valido …
La successiva Break-minisoli vede la batteria di
Minichiello dialogare delicatamente con il piano e il basso, ma il brano è
molto breve e non aggiunge granchè dal punto di vista della composizione.
Evitabile Lamentazione, ossia voci
sovrapposte fino alle urla finali.
Segue 118 intro, indiavolato prog strumentale in cui ancora una volta il gruppo dà
sfoggio delle sue qualità tecniche e della sua passione anche per il jazz.
Risulta essere il brano migliore e forse anche il più complesso musicalmente.
Lento-ostinato-end
rappresenta
un ottima chiusura per la suite, con il suo lento incedere di basso e batteria,
su cui interviene ancora una volta il bravo Bruno che fa decollare del tutto il
brano.
L’impressione
che si ha anche dopo svariati ascolti è che la band avesse un potenziale
maggiore rispetto a quello che poi emerge realmente su disco. Tutta la suite
oscilla tra momenti davvero interessanti e apprezzabili, sia a livello tecnico
che di composizione, ad altri dove la band pare voglia avvicinarsi ad una forma
di sperimentazione che però rischia di diventare fine a sé stessa. Inoltre ci
sono delle parti della suite che hanno al loro interno delle ottime idee ma che
non vengono poi sviluppate adeguatamente. Il gruppo appare martoriato da una
registrazione che per ovvi motivi non era professionale e quindi è difficile
distinguere al suo interno il suono del piano di Riccardo Scandiani. Peccato
perché errori di gioventù a parte quando il gruppo si esprime come sa (suonando
quindi) ne vengono fuori delle belle.
Intervista Giuseppe Di Stefano
di Luigi
Cattaneo e Marco Causin
Giuseppe Di Stefano
inizia ad appassionarsi al basso elettrico come oggetto di liuteria e di trasduzione
elettroacustica e ai suoi sistemi di amplificazione fin da giovane. Come
strumentista ha acquisito un’esperienza che gli ha permesso negli anni di
collaborare, nei più disparati generi musicali, con un gran numero di
musicisti. Avendo iniziato sin da bambino a suonare il basso ha toccato vari
generi, dal beat al prog, dal blues al jazz passando per la fusion. Da qui lo
spunto per una chiacchierata con chi ha partecipato alla stagione d’oro del
rock progressivo militando in una piccola band del ferrarese, i Paxora.
Giuseppe
iniziamo con qualche tuo ricordo legato ai Paxora, la band di cui hai fatto
parte a metà anni ‘70
Come Paxora iniziammo
a suonare insieme nel 1974 e l’anno dopo registrammo il disco. Io avevo
conosciuto qualche anno prima Ricky Scandiani, che poi sarebbe diventato il
tastierista dei Paxora, avevamo 17-18 anni. Ad inizio ‘75 iniziammo a suonare
in giro, cose piccole, tipo concerti nelle scuole ed eseguivamo brani di nostra
composizione che purtroppo sono andati persi. Me ne ricordo uno a Milano in cui
suonò anche Lucio Daddi che poi sarebbe diventato chitarrista per Bennato e
Clapton. In realtà con Scandiani iniziai a suonare nel 1972 negli IVA, ma non
riuscimmo a registrare nulla.
Chi
erano i musicisti del gruppo?
Oltre al
sottoscritto al basso e a Riccardo Scandiani al piano c’erano Gianguido Bruno e
Massimo Torboli alle chitarre e Massimo Minichiello alla batteria.
Riuscivate
a promuovere il gruppo dal vivo?
Dopo aver
composto dei brani riuscimmo a suonare soprattutto nella zona vicino Ferrara e
la risposta del pubblico era davvero ottima. In un concerto allo stadio di
Comacchio c’erano migliaia di persone e ricordo che a gestire il service c’era
la Davoli, che era una delle ditte più importanti in Italia. Alla fine del
concerto uno dei responsabili della Davoli ci propose di lavorare con loro in
un eventuale tournèe. Proprio grazie alle nostre esibizioni live siamo entrati
in contatto con Roberto Roda, che ci chiese di comporre una colonna sonora di
accompagnamento per una sua mostra di diapositive fotografiche. In una
settimana Bruno e Torboli riuscirono a portare a termine ciò che poi avrebbe
preso il nome di Apocalisse. Io
scrissi solo i 2 intro iniziali. Difatti la suite fu opera dei due chitarristi.
Anche perché il gruppo ruotava attorno al suono di Bruno. Tra l’altro ricordo
che mi era capitato di assistere un giorno alla mostra al Palazzo Diamanti di
Ferrara e di essere rimasto sorpreso da come il pubblico si soffermasse a
discutere sulla nostra musica. Credo che questo non abbia mai fatto molto
piacere a Roda!
Come
avete registrato il disco?
Lavorammo a
Ferrara nella sala Estense, un piccolo teatro, sotto la supervisione di
Wolfango Morelli nelle vesti di produttore. Registrammo tutto in presa diretta,
con due microfoni e senza mixer. Anche per questo i due chitarristi e il
batterista si sentono molto di più nella registrazione.
Era
quindi un disco autoprodotto?
Assolutamente
sì. Avevamo una bobina da cui poi facemmo alcune cassette. Una di queste è
stata in mio possesso per circa 20 anni. La suite non venne pubblicata e quando
qualche anno fa è stato messo in produzione il cd recorder ho trasferito la
musica in digitale. Tutto qui.
L’avventura
Paxora durò poco però…
Sì, nel 1975,
dopo la registrazione di Apocalisse,
il gruppo si sciolse. Il progressive iniziava a non interessare più e gli
appassionati iniziarono a dirigersi verso la musica cantautorale che era molto
forte in Italia. Inoltre c’era la questione della politica. Noi non avevamo mai
preso posizioni in tal senso e quindi automaticamente iniziarono a pensare ai
Paxora come ad un gruppo di destra. Ci sentivamo spaesati. Ricordo a tal
proposito un episodio singolare che risale al nostro ultimo concerto tenuto
nello stesso teatro dove avevamo registrato il disco. Ci aveva invitato a
questa serata un movimento anarchico ma quando arrivammo invece di farci
suonare si presero in “prestito” i nostri strumenti! Solo dopo questo
“prestito” ci hanno permesso di suonare, coprendoci però di fischi ancor prima
dell’esibizione …
Mi
pare di capire che solo qualche mese prima il pubblico apprezzava le vostre
performance…
Sì, solo 6 mesi
prima avevamo avuto la possibilità di registrare il lavoro e di riceve
apprezzamenti da più parti. Era mutato tutto davvero molto in fretta. Tu pensa
che solo qualche mese prima l’Arci di Ferrara aveva proposto noi come gruppo
spalla per una tournèe con Banco e P.F.M. che poi non è mai andata in porto!
Ma
erano presenti dei locali a Ferrara e dintorni che supportavano l’attività live
delle band?
No, non c’era
molto. Difatti erano quasi tutti spazi autogestiti. Suonammo in un concerto
organizzato dall’Avis di Ferrara, in uno della Democrazia Proletaria e in
serate all’aperto. Se non avevi un manager o una casa discografica alle spalle
le difficoltà erano enormi.
Dopo
i Paxora i membri della band hanno continuato la loro attività musicale?
Io ho poi
suonato intorno al 1978 nei Rodigium Jazz quartet e abbiamo anche fatto da
spalla ai Napoli Centrale allo stadio Battaglini di Rovigo. Ho poi negli anni
’90 scritto composizioni per basso prima di tornare a suonare con vari gruppi
della zona. Ricky Scandiani nel 1982 ha pubblicato una rock opera, Roadissea, so che si era avvalso in
studio della collaborazione di Ares Tavolazzi. So che ha poi suonato con Lucio
Dalla, Andrè De La Roche, J. Monque (armonicista di New Orleans n.d.r.).
Inoltre è dal 2006 che insegna pianoforte ad indirizzo rock, pop e blues alla
Scuola di Musica Moderna di Ferrara. Anche Massimo Torboli e Gianguido Bruno
hanno continuato a suonare e con il Trio Jazz Acustico hanno vinto nel 2005 il
premio del pubblico al Palermo Film Festival per la colonna sonora (davvero
valida n.d.r.) del film Il bistrot dei
cineasti indipendenti per la regia di Rita Andreetti. Massimo Minichiello
so che ogni tanto suona ancora ma non con continuità.
So
che tu hai una vera e propria passione per gli strumenti, a prescindere dal
basso…
Ho iniziato sin
da piccolo, a 11 anni e senza aiuti, anche perché non avevo musicisti in
famiglia. Un estate a Recoaro Terme c’era un orchestra che la mattina suonava
per 2 ore e io andavo a sentirli sempre, li ho seguiti per due mesi! Mi sedevo
in prima fila e guardavo il bassista, lo studiavo. Praticamente ho imparato
così! Il basso mi interessa come generatore di suono, sono ossessionato dal
suono e dalla sua ricerca ed è per questo che ho così tanti bassi.
Che
percezione avevi di quel periodo che stavate vivendo da musicisti?
Io vivevo il
prog non solo come musica ma come vera e propria ideologia culturale! Erano
momenti creativi e magici, anche se il termine è abusato. Non eravamo consapevoli
che quello che stavamo vivendo sarebbe diventato un momento storico per la
musica italiana. Si pensava che il giorno dopo sarebbe stato meglio del
precedente musicalmente parlando e che noi giovani potevamo migliorare la
società proprio con la musica. Invece ad un certo punto tutto si è fermato e le
cose vecchie sono diventate oggetto di culto. Ma c’era un fermento culturale
davvero notevole in generale.
Ti
ricordi di qualche band della vostra zona particolarmente valida?
Devo dire che
musicisti validi in quel periodo ne ho visti … Però più che nel ferrarese mi
ricordo di un gruppo veneto, gli Eneide (autori di un unico disco, Uomini umili popoli liberi n.d.r.).
Conoscevo Gianluigi Cavaliere che era il cantante del gruppo. So che dopo gli
Eneide ha lavorato con Maurizio Arcieri, ha fatto il fonico per anni e ha
costruito un suo studio in un casolare! Da Rovigo, la zona dove noi Paxora
avevamo la “base” operativa non mi pare siano usciti dei gruppi. C’erano i
Centro Atomico Camate, un gruppo molto politicizzato che si rifaceva agli
Stormy Six.
Come
hai vissuto la decadenza del genere nella seconda metà dei ’70?
Molti hanno
iniziato a sfruttare la tecnologia degli anni ’80 per fare musica in
solitudine. Questa per me è stata una delle grandi differenze rispetto alla
decade precedente. Il digitale, i sequencer, le basi, permettevano al musicista
di suonare da solo, quasi non ci fosse più bisogno di un gruppo. Già a metà
anni ’70 proporre prog non era facile, figurati dopo! Pensa anche a molti
grandi gruppi del nostro prog che tipo di sonorità hanno dovuto adottare negli
anni ’80.
Tu
hai dei progetti nuovi attualmente?
Suono in un
gruppo di cover rock-blues e in due band di rock progressivo, gli Elisir
D’ambrosia e i Quanah Parker.
Come
vedi il futuro del genere?
Io credo che per
la sua capacità di avere situazioni armoniche e melodiche molto sofisticate si
può parlare tranquillamente di musica colta. Come il jazz 30-40 anni fa non
veniva considerato molto dai Conservatori così avverrà per il progressive.
Penso che tra qualche anno il prog entrerà di diritto nei programmi musicali
dei Conservatori italiani, cosa che credo già accada in altri paesi europei.
C’è
qualche band nuova che ti ha particolarmente colpito?
Personalmente
ascolto molto il jazz e la fusion e la scena attuale non la seguo
particolarmente, però mi hanno colpito positivamente i Randone, davvero un
ottima band!