lunedì 29 dicembre 2014

MÈSÈGLISE, L'assenza (2013)


Esordio per i Mèsèglise, band a cavallo tra folk, cantautorato e progressive, nata da un’idea di Paolo Nannetti (autore di parole e musica, nonché tastierista e fisarmonicista della formazione), Marco Giovannini (voce dei Sithonia) e Maurizio Lettera (batteria). L’assenza è un album che in realtà ha pochi punti di contatto con il prog e che mira a colpire l’ascoltatore soprattutto attraverso una scrittura semplice e scevra da eccessi ma non per questo banale o scontata. Giovannini si stacca da quanto fatto con i veterani Sithonia per affrontare un percorso più lineare, senza orpelli e molto melodico. Qualche spunto prog inevitabilmente si palesa nel tocco tastieristico di Nannetti e in qualche frangente strumentale cucito all’interno della forma canzone ma il tutto è riconducibile ad un gradevole folk cantautorale che probabilmente non attirerà l’attenzione dei progster più accaniti. L’iniziale 16 Marzo spiana la strada e non lascia adito a fraintendimenti, con tanto di chorus di facile presa. La title track ha una lieve vena malinconica, mentre ha un mood più progressivo Il Fiore e la Finestra. Ottima l’atmosfera nostalgica di Stelle di Lefkos, il break simil prog di Sole in città e la suadente classicità di Così è stato. Più leggera ma comunque piacevole è F.T.M., ma è solo un momento prima della cantautorale La risposta e delle oscure La fotografia e Trasparenze. Chiudono il lavoro con garbo Un ottimo atleta e la breve Mare di cartone, due momenti delicati e soavi, un po’ come tutto il disco. L’assenza è un album indirizzato soprattutto a chi ama il cantautorato e pone attenzione all’aspetto testuale e non solo a quello musicale, qui comunque curato, soprattutto in fase di arrangiamento e nella scelta dei suoni. Un applauso anche alla Lizard, sempre attenta nello scoprire e dare spazio a piccole e meritevoli realtà. (Luigi Cattaneo)

Trasparenze (Live)

venerdì 26 dicembre 2014

DROPSHARD, Silk (2014)


Il ritorno dei Dropshard non tradisce le attese e glorifica ancor di più questo 2014 all’insegna delle tante e valide uscite progressive che si sono verificate. I giovani gruppi italiani non stanno a guardare e attingendo dall’ampio serbatoio che questo genere crossover per eccellenza ha in sé, sfornano dischi spesso di valore e ben suonati che avrebbero bisogno solo di una distribuzione ad ampio respiro (una probabile utopia…). Non fanno eccezione i brianzoli, che dopo il bel debut del 2011 tornano a muoversi su quella linea di demarcazione dove si incontrano l’art rock settantiano, il new prog, la psichedelia e il progressive metal (anche se in maniera minore). Questo succulento come back autoprodotto è la riprova di quanto appena detto. I Dropshard sono cresciuti ulteriormente, hanno imbracciato un suono ancor più al passo coi tempi senza rinnegare le profonde radici anni ‘70 e, cosa da non sottovalutare, hanno ancora margini di miglioramento. Nella musica del quintetto è possibile ritrovare Yes e Genesis, i Marillion post Fish, gli Spock’s Beard e i Porcupine Tree, in un percorso emozionale e d’impatto, dove la componente melodica e suggestiva delle composizioni non viene mai meno e sembra prevalere sull’aspetto meramente tecnico. Valerio De Vittorio (tastiere), Alex Stucchi (basso), Enrico Scanu (voce, chitarra e flauto), Tommaso Mangione (batteria) e Sebastiano Benatti (chitarra), firmano un opera seconda maggiormente a fuoco, ricca di coloriture e figlia di un lungimirante lavoro d’insieme. La triade iniziale formata da Insight, Eyes e Cell 342 è la sintesi del Dropshard pensiero: solidità ritmica, intarsi psichedelici, vibranti spunti chitarristici, le tastiere sullo sfondo che addobbano con passaggi caldi e suadenti. Memento è la straordinaria suite che chiude l’album, un piccolo gioiello piena di momenti suggestivi, sinfonici e ben calibrati. In mezzo brani comunque di buon livello come Perpetual Dream e soprattutto The Endless Road, altra long track in cui emerge la vena compositiva della band e qualche piccolo omaggio a Pain of Salvation e Riverside. Silk è la conferma del talento del gruppo che già era emerso con nitidezza in Anywhere but Home (recuperatelo!) e che consegna sul finire dell’anno uno dei progetti più interessanti del 2014. (Luigi Cattaneo)

Memento (Video)

         

mercoledì 24 dicembre 2014

FERDINANDO FARAÒ & ARTCHIPEL ORCHESTRA, Play Soft Machine (2014)


Avvicinarsi alla musica dei Soft Machine, interpretarla in modo personale e convincente, arricchirla senza snaturarla, portandole rispetto ma non soggezione. Facile a dirsi, un po’ meno pensare di raggiungere l’obiettivo senza avere alle spalle una solida preparazione e una buona dose di coraggio e determinazione. Diventa forse più semplice toccare il traguardo se l’avventura viene sostenuta da un’orchestra formata da musicisti di varia estrazione ma accomunati da un forte spirito sperimentale. L’Artchipel Orchestra guidata da Ferdinando Faraò mostra di non aver paura di affrontare il repertorio di Hugh Hopper e compagni e pubblica il nuovo album per Musica Jazz (primo canale di distribuzione ma il disco si può richiedere anche alla pagina facebook del gruppo). Faraò si è accerchiato di grandi professionisti e ha creato un ensemble rodato e capace di omaggiare i Soft Machine senza cadere in banalità di sorta, facendo convivere Canterbury, il jazz rock e i grandi passaggi strumentali di cui erano pieni i dischi nei ’70, amalgamando il tutto con un fine ma ferreo lavoro orchestrale di ben 27 elementi (anche se non sempre tutti presenti). Un preludio collettivo e free apre il disco e la seguente Facelift si denota da subito per un tris di soli di Alex Sabina al sax soprano, Massimo Giuntoli all’organo e Paolo Botti alla viola, ben coadiuvati dall’operato dell’orchestra. Spicca anche Kings and Queens, soprattutto per il “duello” fiatistico tra Francesca Petrolo (trombone) e Rosarita Crisafi (sax tenore), così come in Noisette la parte del leone è affidata ai tre sassofonisti (Massimo Falascone, Germano Zenga e Felice Clemente) che, pur con stili diversi tra loro, interagiscono in maniera vibrante e sentita. Dopo la breve versione per sole voci di Dedicated to you but you weren’t listening è la volta di Mousetrap, 9 minuti fitti di assoli e sprazzi strumentali e la storica Moon in June con i bravi Filippo Pascuzzi e Serena Ferrara alla voce e un altro grande rappresentante del sax come Rudi Manzoli. Faraò e l’orchestra ci mettono tanto del loro nel “trattare” la materia Soft Machine attraverso sviluppi fiatistici imprevedibili, coloriture organistiche di pregio, spunti vocali di rilievo e pulsioni rock che ben si inseriscono nelle trame create. Ferdinando Faraò & Artchipel Orchestra Play Soft Machine è un tributo pieno di fascino e di comunicatività, tanto che viene spontaneo domandarsi quando potremmo avere un secondo capitolo, magari dedicato a qualche altra leggenda canterburiana. (Luigi Cattaneo)

Moon in June (Live)

lunedì 22 dicembre 2014

DARK AGES, Teumman al Circolo Colony


Anteprima


Dopo il positivo riscontro del debutto e delle repliche svoltesi in suggestive location veronesi la scorsa estate e la prima delle date invernali nel prestigioso Teatro Astra di Verona, Teumman si sposta a Brescia in uno dei migliori club italiani dedicati alla musica dal vivo, il Circolo Colony.

I Dark Ages, storica band del panorama rock/metal italiano attiva dalla fine degli anni ’80, dopo vari cambi di line-up, ha trovato il suo assetto stabile a partire dal 2008 con l’ingresso degli attuali musicisti con i quali la band ha pubblicato, divisa in 2 parti, l’Opera Rock intitolata Teumman.

Dopo le critiche favorevoli delle due uscite Teumman pt.1 (2011)  e Teumman pt. 2 (2013) entrambe per la Heart of Steel Records di Vicenza, la band ha deciso di intraprendere l’ambizioso progetto della trasposizione teatrale dell’ opera che narra le vicende del principe Teumman caduto in battaglia che stringe un patto con il signore dell’oscurità il quale, in cambio della vita eterna, lo costringe ad eseguire il volere del male…

Una storia ambientata nell’antica Assiria scritta dal frontman Davide Cagnata e “raccontata” in musica dai Dark Ages che, nota dopo nota, gli hanno dato vita facendo muovere i personaggi, creando ambientazioni, trasmettendo sentimenti. Il risultato non ha lasciato indifferenti gli amanti del progressive rock e metal di stampo classico, caratterizzato dalla matrice rock che accomuna tutti i componenti del gruppo in particolar modo lo storico chitarrista Simone Calciolari; il tutto arricchito dagli arrangiamenti orchestrali e classici delle tastiere di Angela Busato e spinto dalla notevole sezione ritmica formata da Carlo Busato alla batteria e Nicola Cenzato al basso.

Era un sogno nel cassetto che avevamo dall’inizio” spiega il singer  Davide “ma solo l’incontro con le registe Federica Carteri e Roberta Zonellini, che hanno curato la drammaturgia e dirigeranno lo spettacolo, ha permesso a questa nostra idea di concretizzarsi” .

 

TEUMMAN

Opera Rock in 2 Atti (90 minuti + intervallo)

Musiche e liriche di Dark Ages – Drammaturgia di Federica Carteri

Direzione artistica, scenografia e costumi a cura di ‘Il Gatto Rosso’

Regia di Federica Carteri e Roberta Zonellini

Musiche Live di Dark Ages.

 

Personaggi Principali ed Interpreti:

Teumman – Davide Cagnata

Berkaal – Tiziano Taffuri

Agares – Emiliano Fiorini

Namrad – Ilaria L’Abbate

Oriax – Roberto Roverselli

 

DARK AGES

Record Label: Heart of Steel Records

Recording Studio: Mago Studio di Maurizio “Tacky” Fracchetti

Artwork & Web Master: Rejects Design di Elisa Santambrogio

Photo: Happy Photography Studio di Giovanna Aprili



 

ASSOCIAZIONE TEATRALE IL GATTO ROSSO

Sede legale – Via Monte Cricco 2b – 37014 – Castelnuovo del Garda (VR)


mercoledì 17 dicembre 2014

LITAI, Litai (2012)


Dopo aver vinto il concorso Omaggio a Demetrio Stratos, esordiscono sotto la direzione della sempre curiosa Lizard i veneziani Litai, band dedita ad un jazz rock che cerca di svincolarsi dai dettami del genere. Oltre difatti alle influenze settantiane di Area, Picchio dal Pozzo, Soft Machine e più in generale della scena di Canterbury, nella loro proposta ritroviamo alcuni aspetti cari ai contemporanei Labirinto di Specchi e Il Babau e i Maledetti Cretini, non solo per alcune scelte musicali ma anche per il recitativo presente in diversi momenti. Litai è un disco di non facile lettura, poco incline al compromesso e piuttosto coraggioso, proprio come alcuni dischi di King Crimson e Frank Zappa. Il punto focale paiono i fiati del valido Mattia Dalla Pozza (sax e flauto), ben amalgamati con il tocco frippiano di Francesco Piraino (chitarra) e le ritmiche irregolari e fantasiose di Michele Zavan (basso) e Stefano Bellan (batteria). L’interplay che si crea è piuttosto interessante, scorrevole pur nella sua complessità e le trame strumentali appaiono sempre ben messe a fuoco dal quartetto. Pur senza l’utilizzo delle immancabili tastiere i Litai riescono a creare frangenti caldi e suadenti ma anche stranianti nella loro particolarità. Qualche caduta di tono si avverte qua e là (soprattutto quando si dilungano troppo le parti declamate) ma nel complesso questa opera prima risulta sentita e abbastanza convincente. Un platter d’esordio che ha il merito di evidenziare alcune solide caratteristiche che devono forse essere solo ulteriormente rifinite per concretizzare ancor di più quanto di buono è stato proposto in questo debutto. (Luigi Cattaneo)

Babinia (Video)



JAKSZYK, FRIPP AND COLLINS, A scarcity of miracles (2011)


Non è un disco dei King Crimson. Non si tratta di un progetto solista di Robert Fripp. Ma allora di cosa bisogna parlare ascoltando A scarcity of Miracles? A King Crimson project è l’insolita dicitura posta sul disco che vede protagonisti oltre a Jakko Jakszyk alla chitarra, voce e tastiere, Mel Collins al sax e al flauto e Robert Fripp alla chitarra, una sezione ritmica capace di trasformare in oro tutto quello che tocca, ossia Gavin Harrisson alla batteria e Tony Levin al basso. Ovvio che con una line-up del genere vi siano dei rimandi ad alcuni album del Re Cremisi ma le sorprese rispetto al più recente passato non mancano di certo. Ci sono quindi in pieno le stigmate del suono King Crimson ma c’è anche una voglia di provare a dettare schemi differenti e a sviluppare sonorità e soluzioni che poi, magari, potrebbero tornare utili per la band madre. Già l’iniziale title track si dimostra evocativa, pregna di atmosfere rarefatte che potranno piacere sia ai vecchi fan dei King Crimson, sia ai più giovani che amano Steven Wilson e i suoi mille progetti. Fripp disegna scenari come solo lui sa fare da più di 40 anni, Collins irrompe con la sua naturale freschezza imponendosi subito come elemento aggiunto di grande spessore non solo tecnico ma anche cominicativo, Jakszyk si dimostra cantante dotato ed espressivo. The price we pay è il brano più diretto dell’intero album, piccola gemma che mostra la grande attenzione posta da Fripp nell’utilizzare trame fiatistiche delicate e di sicuro effetto senza dimenticare il suo amore per la ricerca. Secrets soffia leggera, come qualcosa di indefinito e di lieve nella prima parte, salvo poi essere scossa da una potente ritmica su cui si appoggia la mano solida di Fripp e quella più tenue di Collins. Una doppia anima, una personalità multipla e in continuo mutamento che non si lascia scoprire con facilità e che ti trasporta in territori mai prevedibili, proprio come la storia dei King Crimson insegna. This house è una spirale che ti avvolge ascolto dopo ascolto, densa di una malinconia autunnale, un mantra dove il termine progressive assume davvero i connotati di un mondo dove perdersi tra mille suoni e visioni, piccoli particolari che mai risultano lasciati al caso ma anzi utili alla riuscita della composizione. Altra perla è The other man, uno dei momenti più significativi del lavoro, in bilico tra visionaria psichedelia e progressive rock fortemente elettrico che conquista la scena a scapito dell’atmosfera che aveva contraddistinto sinora il disco. Chiude The light of day, brano affascinante nel suo incedere, impregnato di un alone di mistero che ti conquista, pur essendo, è bene dirlo, tutt’altro che facile da assimilare, anche per quei 9 minuti di durata che forse alla lunga non giovano del tutto alla composizione. Ma questo appare un dettaglio. La verità è che ci si trova davanti ad un album completo, ricco di idee, pieno zeppo di spunti riusciti e che pur essendo meno complesso di altri lavori targati King Crimson non risulta mai banale o scontato. In attesa di nuove notizie relative al gruppo che ha influenzato generazioni di musicisti rock e metal si può accettare con gioia questa ennesima prova maiuscola di Fripp e compagni. (Luigi Cattaneo)

A Scarcity of Miracles (Official Video)



giovedì 11 dicembre 2014

ARRJAM, Session One (2014)


Gli Arrjam sono un interessante progetto con quattro membri fissi pronti ad accogliere musicisti esterni per dare libero sfogo a delle jam libere da qualunque schema. Concetto particolare che vede protagonisti il bassista Daz (membro dei Vicolo Inferno), motore ritmico insieme al batterista Moretti Butcher, Got alla voce e Mauroman alla chitarra, in un turbinio di funky rock con spunti hard che cerca di smarcarsi dall’affiancamento costante ad un genere. E allora ci si può imbattere in passaggi strumentali cari a Robben Ford o momenti vicini ad alcune realtà crossover come Red Hot Chili Peppers e Primus. Si parte da un approccio da jam band per poi deviare verso lo schema forma canzone, seppure senza pensare troppo a quale direzione intraprendere, cercando sempre di giostrare tra vari generi e differenti percorsi. I quattro mostrano di avere ottime doti, capacità di coinvolgere e anche una certa ironia, sempre al servizio di brani ampiamente diretti e mai particolarmente ostici all’ascolto (seppur complessi dal punto di vista tecnico). Il funk e l’hard rock sono gli elementi prevalenti del sound della band e in alcuni momenti sembra di sentire echi dei migliori Living Colour, pur tenendosi lontani da scimmiottamenti di sorta. L’attenzione verso melodie di facile assimilazione risulta uno degli elementi più importanti, anche in brani piuttosto strutturati come Ali o Welcome to the Cocaine, strumentali tirati e pieni di groove. Le note scorrono veloci ma senza virtuosismi inutili e ne sono prova tangibile le ottime Very Nice e Screaming for, pezzi molto piacevoli e di grande carica. Session One è indubbiamente un buon debutto che ha il pregio di lasciare aperte varie strade in cui infilarsi, vediamo quale sceglieranno di intraprendere gli Arrjam in futuro e se il progetto può avere un reale sviluppo. (Luigi Cattaneo)

Very Nice (Official Video)

martedì 9 dicembre 2014

BUBU, Anabelas (1978)


Ci sono stati, negli anni ’70, popoli che lontani tra loro hanno condiviso la passione per uno stile di musica, il progressive (anche se la definizione è postuma), che univa rock, musica classica, psichedelia, jazz, folk, in un meltin pot sonoro estremamente variegato e variopinto. Abbattere certi confini per crearne di nuovi. E così è stato, se si pensa che il “morbo” progressivo contagiò non solo i paesi occidentali ,dove effettivamente tutto il movimento si è creato, con Gran Bretagna in testa seguita a ruota da Italia, Germania e Francia, ma si interessarono alle nuove sonorità le più disparate nazioni, con risultati anche davvero ottimi. Leggenda vuole che diversi gruppi progressivi dell’ Europa dell’est abbiano avuto parecchi problemi per quello stile musicale troppo occidentale… I Fermata, jazz rock band proveniente dalla Repubblica Ceca, furono contrastati dall’allora regime comunista per l’introduzione di ritmi e sonorità occidentali; stessa sorte per i conterranei Blue Effect che furono addirittura costretti a modificare il loro monicker in Modry Efekt; i Yugoslavi Korni Grupa Kornelyans cercavano di non allungare troppo i loro brani per non crearsi problemi con il regime che non vedeva di buon occhio il loro amore per il progressive italiano; infine mi preme citare i rumeni Phoenix, gruppo dalla storia piuttosto bizzara e travagliata. Difatti partiti come Sfintii (I Santi) nel 1962 sono costretti dal regime a cambiare nome per poter suonare ancora, salvo poi vedere una loro opera del 1973 boicottata con tagli tali da ridurre il disco ad ep. Si narra addirittura di fughe dal paese nascosti nelle custodie degli amplificatori! C’è stato un continente che ha accolto più di ogni altro gli imput provenienti soprattutto dall’Inghilterra e dall’Italia e li ha rivisitati alla luce di una cultura, anche popolare, che non ha eguali, il Sud America. Ogni paese che lo forma ha dato un contributo importante, trapiantando in un proprio codice genetico certi suoni che avevano fatto breccia nei cuori degli appassionati europei, impastando il tutto con colori e umori tipici della propria terra. Ovviamente anche qui ci sono stati casi più eclatanti e imitatori, gruppi fondamentali e altri trascurabili. Una delle band principali è quella dei Bubu, argentini artefici di un unico e sublime disco, Anabelas, del 1978. Mentre in Europa il rock progressivo iniziava a leccarsi le ferite, spazzato via dalla voglia di tornare ad un sound più asciutto e immediato dettato dalle nuove tendenze del punk e della new wave, in Argentina il movimento progressivo, pur se molto underground, aveva ancora delle cartucce da sparare. E che cartucce verrebbe da dire ascoltando l’esordio dei Bubu, uno di quei lavori di cui è difficile non innamorarsi. Si parte subito con il pezzo forte dell’album, la suite strumentale di 20 minuti circa El Cortejo de un dia amarillo, dove si sprecano i cambi di tempo e di atmosfera, complice la ricca strumentazione a disposizione degli argentini, in un suono che sovrappone con sorprendente armonia il sax di Win Fortsman, il violino di Sergio Polizzi, il flauto di Cecilia Tenconi e la chitarra di Eduardo Rogatti. A volte questo articolato assortimento sonoro ricorda la follia calcolata di Frank Zappa e la complessità strutturale dei migliori Gentle Giant. Un rischio che pare calcolato vista la grande dimestichezza tecnica di cui dispongono i Bubu, perché anche quando il pezzo sembra senza una precisa direzione spunta sempre il colpo d’ali che rimette in riga le cose. E questa è caratteristica spesso dei grandi. Inoltre i confini il cui si muove la suite è spesso labile. Oltre al già citato Zappa e ai Gentle Giant, i Bubu si avvicinano anche ai King Crimson, soprattutto grazie alla fantasiosa sezione ritmica formata da Eduardo Fleke Folino al basso ed Eduardo Fleke Corbella alla batteria e al jazz rock dei Soft Machine. In un quadro così variegato i Bubu si muovono con classe e qualità riuscendo a creare un brano immortale di tutto il rock progressivo, non solo di quello sudamericano. Anche la seconda traccia, El viaje de Anabelas, è piuttosto lunga e complessa, con i suoi 11 minuti di durata. L’inizio vede protagonista Polizzi con il suo flauto a cui ben presto si accorpano il violino e il sax, finchè non si giunge al primo e lirico momento cantato da parte di Petty Guelache. Ma è solo un attimo perché subito la band si tuffa con foga nel creare un altro grandissimo momento strumentale, con i fiati e il violino a rimarcare con forza la tensione espressiva che davvero caratterizza tutto il brano, con richiami al progressive dark dei Van Der Graaf Generator, al jazz e al Canterbury sound. Chiude l’album Suenos de Maniqui, imprevedibile traccia che alterna accelerazioni frenetiche ma ragionate in cui chitarra e violino si lanciano in una folle corsa a grande velocità e sprazzi più sobri in cui si fa valere anche Guelache che risulta molto espressivo e caldo. Stupisce la simbiosi tra le parti più furiose e psichedeliche, con una sorta di romanticismo magico che lega la terra di appartenenza con i Jethro Tull più ispirati. Anabelas è un disco completo, emozionale, memorabile. Non ci sono cali di tensione o momenti insignificanti e la tavolozza sonora utilizzata è invidiabile. Le grandi doti tecniche di cui dispongono consente all’ensemble di passare con facilità dal progressive sinfonico alla psichedelia, passando attraverso la fusion e il jazz rock, senza dimenticare un certo fascino tipico dell’ America Latina, dettato soprattutto da alcune atmosfere e dal cantato spagnolo. Un piccolo tesoro nascosto che purtroppo come spesso è capitato non ha avuto un seguito, ma che si deve preservare dalla scomparsa. Tenere viva la memoria aiuta. (Luigi Cattaneo)

Anabelas (Full Album)

lunedì 1 dicembre 2014

CONCERTI DEL MESE, Dicembre 2014

Martedì 2
·Locanda Delle Fate Asti

Venerdì 5
·Aldo Tagliapietra Dalmine (BG)
·Astrolabio+Moto Armonico Club Il Giardino Lugagnano (VR)
·Mirrormaze Ornavasso (VB)

Sabato 6
·Banco del Mutuo Soccorso Roma
·I Treni all'Alba Torino
·Spellbound+Vortice di Nulla Paprika Jazz Club Dalmine (BG)
·Ainur Moncalieri (TO)
·Trewa Como
·Fungus Genova

Domenica 7
·Arturo Stàlteri a Napoli

Lunedì 8
·FixForb Blues Canal ore 20:00 Milano

Martedì 9
·Ranestrane Roma

Mercoledì 10
·Mastodon Milano

Giovedì 11
·London Underground Siena
·Tuxedomoon Leoncavallo Milano
·Ossi Duri S. Ambrogio di Torino (TO)

Venerdì 12
·Dropshard Desio (MB)
·EL&P Project Tribute Roma
·Taproban Roma
·Tuxedomoon Roma
·Ossi Duri Piacenza
·R.U.G.H.E. Genova

Sabato 13
·Ossi Duri Casa di Alex Milano
·Fabio Gremo+Delirium+Coscienza di Zeno Genova
·Senza Nome Marino (Roma)
·Mike 3rd Club Il Giardino Lugagnano (VR)

Domenica 14
·Astrolabio Verona
·Quintorigo & Roberto Gatto Milano
·Tuxedomoon Bologna



 Giovedì 18
·Runaway Totem Zero Branco (TV)
·Camelias Garden Roma

Venerdì 19
·Anyway Moncalieri (TO)
·Balletto di Bronzo+Sophya Baccini Roma
·Il Tempio delle Clessidre Genova
·Squartet Bologna

Sabato 20
·Sintonia Distorta Lissone (MB)
·Alphataurus Cherasco (CN)
·Osanna Napoli
·Napoli Centrale Pozzuoli (NA)
·Quarto Vuoto Meolo (VE)

Domenica 21
·Quintorigo+R.Gatto S. Anna Arresi (CA)

Sabato 27
·Supper's Ready Lugagnano (VR)
·Dark Ages Brescia
·Nodo Gordiano Roma
·Lingalad Vallerano (VT)

domenica 30 novembre 2014

DIAMANTE, Ad Vitam Reditus (2014)

I bresciani Diamante hanno una lunga storia alle spalle, che ha radici negli anni ’90 e che si focalizza da subito verso l’omaggio a grandi band dei settanta, sia inglesi (Deep Purple e Uriah Heep) che facenti parte della corrente prog italiana (Biglietto per l’inferno, Rovescio della Medaglia). Dopo l’esordio del 2000 (Riflesso) e il ritorno nel 2007 (Diamante) la band viene colpita dal lutto del tastierista Nicola Zanoni, sostituito da Alan Garda (hammond e tastiere) e ben presente in questo nuovo Ad Vitam Reditus. La maggior parte dei pezzi contenuti nel disco sono un inno al riscatto personale e alle beffe della vita, già a partire dalla splendida doppietta iniziale formata da Il Pagliaccio e Vedi Fratello. La prima è un hard rock con un chorus contagioso e irresistibile, mentre la seconda rimanda ad un tema impegnativo ed emozionale come i campi di concentramento ed era già presente nel disco precedente, anche se qui viene resa più heavy e mostra il grande affiatamento tra Garda, Michele Spinoni (chitarra), Claudio Alloisio (batteria) e Nico Sala (voce e basso). Ballo in Fa Diesis Minore di Angelo Branduardi viene rivisitata in chiave rock, Io Sono … E Sarò ha invece una gradevolissima vena prog impreziosita da un bel solo di Garda. Respirare te (scritta da Zanoni) ritorna in territori hard e si denota per un solo centrale di Spinoni davvero settantiano, così come Profumo d’Oriente che ha una matrice piuttosto simile, anche se più progressive. Tutto ciò viene confermato dalla viscerale carica di Non resisto, mentre Gloria è una preghiera dai passaggi tipicamente vintage prog e la conclusiva La ballata del buon vino (anche questa opera di Zanoni) è una folk song gioiosa e solare. Ad Vitam Reditus è un gradito ritorno, pregno di hard rock ribelle, diretto e imbevuto di soluzioni vicine al progressive e mostra una band dalle buone doti tecniche, in evoluzione rispetto al passato, sempre più convinta dei propri mezzi e della strada da seguire. (Luigi Cattaneo)

Non Resisto (Video)

mercoledì 26 novembre 2014

BASTA!, Oggetto di Studio (2012)


Si può fare del buon prog rock cercando di avere un approccio personale se non addirittura originale? In un periodo di grande fervore per il genere, spesso le uscite, anche ottime, rispecchiano in pieno i clichè a cui siamo abituati da oltre quarant’anni. Alcuni canoni, oramai standardizzati, vengono seguiti anche da act giovani che quella stagione dorata l’hanno vissuta solo di riflesso, magari consumando i vecchi vinili dei genitori. Ma torniamo al quesito iniziale. Si può fare (parafrasando la P.F.M. di Suonare Suonare) o comunque ci si può provare e avere il coraggio di tentare la strada dell’imprevedibilità. Senza parlare di nuove vie da seguire o utilizzare termini esagerati, si può tranquillamente dire che i Basta! (band proveniente da Valdarno) hanno le carte in regola per apparire come un elemento in qualche modo unico nel panorama attuale. Merito anche della scelta di utilizzare strumenti atipici come il clarinetto suonato da Andrea Tinacci e soprattutto la diamonica di Damiano Bondi, che si intrecciano in modo naturale ed elegante con la chitarra di Saverio Sisti e le ritmiche prog della coppia Roberto Molisse e Giacomo Soldani, rispettivamente batteria e basso della formazione. Oggetto di Studio (registrato dopo aver vinto l’U-Festival e prodotto da Materiali Sonori) è una sorta di concept, con un narratore che lega le varie tracce raccontando l’epopea di un ricovero ospedaliero in cui si è cavia da laboratorio (ma non manca una certa surreale ironia toscana). Le influenze più chiare sembrano quelle di Porcupine Tree e Rush, mentre il mood quasi cinematografico del racconto mi ha rimandato anche ai grandissimi Ranestrane ma l’inserimento della diamonica in questo contesto riesce a spiazzare e nello stesso tempo entusiasmare. L’opener Il sig. Porpora e gli Oggetti Scomposti, la seguente Sogno … ma anche no e Mondi Paralleli sono il trittico che qualunque band al debutto sogna di piazzare, merce rara per qualità e coinvolgimento. Le melodie dettate da diamonica e clarinetto sono un piacevole diversivo al solito menù, i soli di Sisti risultano efficaci e le ritmiche ben pensate nel coadiuvare lo sviluppo delle trame proposte. Un ep di buonissima fattura e di notevole impatto che lascia presagire un futuro molto roseo. (Luigi Cattaneo)

Qui di seguito il link dove ascoltare l'ep

venerdì 21 novembre 2014

TACITA INTESA, Tacita Intesa (2014)


Debut interessante per i toscani Tacita Intesa, un omonimo lavoro autoprodotto da cinque ragazzi (Pasquale Balzano alla batteria, Filippo Colongo alla chitarra, Thomas Crocini al basso, Alessandro Granelli alla chitarra nonché cantante e Daniele Stocchi alle tastiere) uniti dalla passione per il rock progressivo tout court. La band partendo da modelli settantiani si lancia in passaggi hard ed elettronici che ben si inseriscono nel contesto e così è facile scovare passaggi vicini ai nostrani Balletto di Bronzo o agli immortali King Crimson, senza dimenticare effluvi psichedelici di floydiana memoria. L’idea alla base del lavoro (la fusione tra uomo e tecnologia e ciò che può comportare il progresso) si sviluppa nell’arco dell’opera in modo armonioso e ben strutturato, già a partire dall’iniziale Ciutikutown, uno dei brani punta di questo esordio. Synth preponderanti, voce filtrata, clima oscuro degno dei Van Der Graaf Generator e progressivo avvicinarsi a caratteristiche comuni a tante band italiane di oltre quarant’anni fa (Premiata Forneria Marconi ma anche New Trolls), con Stocchi bravissimo nel creare ottimi tappeti che si amalgamano con dirompenti frasi ritmiche e inserti chitarristici piuttosto possenti. La breve e classicheggiante Daigo introduce Valzer della morte, brano in cui si distingue nuovamente Stocchi con le sue parti di organo. Dopo la stralunata Portmanteau è la volta di Corona, pezzo dai risvolti psichedelici che nella parte centrale sviluppa solide trame hard prog per poi abbandonarsi su lidi più tipicamente settantiani, per quello che forse è l’episodio che meglio riassume le varie piccole anime del progetto. Un discorso analogo anche per la successiva Terzo Rigo quarta Parola, con parti cantate al limite del beat e intuizioni di stampo quasi heavy, soprattutto per via di certi riff propulsivi proposti da Colongo. Il finale strumentale di Periodo Refrattario ci porta nuovamente nei territori progressivi degli albori e conclude un disco interessante e che lascia intravedere ampi margini di miglioramento. (Luigi Cattaneo)

Ciutikutown (Video)



giovedì 20 novembre 2014

UT GRET, Ancestors' Tale (2014)


Avevamo lasciato gli Ut Gret all’ottimo Radical Simmetry del 2011 e risentirli dopo tre anni in questa forma e con così tante idee non può che lasciare soddisfatti. Gli americani, il cui nucleo originario risale addirittura agli anni ’80, non deludono affatto le aspettative e firmano un nuovo e intrigante album. Ancestors’ Tale (quarta fatica del gruppo) è figlio della passione del leader Joee Conroy (basso e chitarra) per il jazz rock canterburiano, che qui viene fuso con la voglia di sperimentare di band come Rational Diet e i seminali Gong. L’utilizzo di tanti strumenti a fiato come clarinetto, flauto e sax aumenta lo spettro sonoro lungo cui si muove la band, un labirintico mondo fatto di suoni e percezioni differenti ma sempre amalgamati con ingegno. Non mancano estrosi passaggi in odore di King Crimson, Universe Zero ed Henry Cow, ma non è affatto un dramma sentire certi piccoli omaggi, soprattutto quando suonati con tale classe e sospinti da una buonissima capacità di scrittura, che non viene mai meno neanche nei momenti più complessi. Gli Ut Gret difatti, pur non rientrando in un ambito digeribile con un ascolto superficiale, non perdono mai di vista l’aspetto comunicativo e la creazione di uno stile proprio e riconoscibile. Sempre brillanti, attenti a inquadrare le giuste melodie, raffinati nelle parti solistiche (in particolar modo gli egregi interventi fiatistici di Steve Good), gli statunitensi firmano uno dei dischi di settore più interessanti del 2014. Sono esempio lampante di quanto sinora espresso brani simbolo come Selves Unmade, la strumentale e settantiana Zodiac o il jazz rock sinfonico della title track. Ma è tutto il lavoro a muoversi sulle giuste coordinate, imbastendo fraseggi ora più folkeggianti, ora più jazzati, ora più consoni a canoni progressive, sempre mantenendo una forte connotazione fiatistica. Gigantesca la fitta trama di An Elephant in Berlin (con un grande Steve Roberts al piano), brano figlio di un certo avant jazz cameristico, mentre The Grotesque Pageantry of Fading Empires è segnata da un mood tra King Crimson e French Tv. Ancestors’ Tale è un album sopraffino ed estremamente gradevole, segno tangibile di come si possano unire ricerca, virtuosismo e senso della melodia in un unico grande disco. (Luigi Cattaneo)

Elephant in Berlin (Live)

martedì 18 novembre 2014

SPETTRI, Spettri (2012)


Una nuova uscita che profuma di vintage. Anzi, arriva proprio da quel periodo storico del progressive italiano che tanto affascina gli appassionati e tanto viene criticato dai detrattori. Difatti il lavoro in questione è stato registrato in un'unica sessione venerdì 13 ottobre 1972 e solo ora viene ristampato e pubblicato dalla Black Widow. Con pregi e difetti che ne derivano. La band fiorentina nasce già nel 1964 e ad inizio anni ‘70 comincia a proporre live quella che sarebbe diventata la suite che possiamo ascoltare in questo disco che non ebbe modo di essere pubblicato 40 anni fa. Vengono qui rispettati tutti i clichè del genere hard prog, quindi l’amore per band storiche come Deep Purple e Led Zeppelin, oltre a quello per il nascente movimento italico. Guidati dai fratelli Ponticiello (Ugo, Raffaele e Vincenzo), gli Spettri incisero una suite divisa in quattro parti ed anticipata da un introduzione volta a spiegare il senso del testo (la critica ad una società senza reali valori). Ma oltre all’indubbio fascino di un’opera inedita c’è realmente di più? Non troppo, anche se sicuramente la band e il prodotto in sé mostrano degli spunti interessanti. Forse però prevale il valore storico e archivistico della scoperta anziché quello musicale comunque apprezzabile. Perché, è bene dirlo, le composizioni risultano discrete ma non hanno la forza per emergere totalmente neanche se con il cuore e la mente si fa un salto temporale all’indietro. C’è dunque in questo esordio quanto ci si poteva aspettare da una delle tante band di quell’era, il canto potente ma non troppo armonioso di Ugo, l’organo hammond in bella evidenza suonato con feeling e riff di chitarra dichiaratamente hard. Insomma un incrocio tra i Black Sabbath e gli Iron Butterfly, senza tralasciare gli italiani Rovescio della Medaglia, in quello che è ideale incontro tra heavy e progressive rock. Palese quindi che gli Spettri non aggiungano nulla a quanto già emerso dal panorama nostrano anche se il background e la potenza dei fiorentini se fossero state ben incanalate avrebbero potuto portare ad un risultato più alto. Difatti non bisogna dimenticare i mezzi di incisione e l’esiguo tempo a disposizione nel registrare l’album. Sarebbe bello e giusto dare ai cinque una nuova opportunità per mostrare il loro valore, che sono sicuro può emergere ora con maggiore nitidezza e consapevolezza. (Luigi Cattaneo)

Incubo (Video)



giovedì 13 novembre 2014

STEREOKIMONO, Intergalactic Art Cafè (2012)

Il come back degli Stereokimono non può che far piacere agli appassionati di progressive vista la prolungata assenza dei bolognesi, che tornano con un nuovo ispirato lavoro a distanza di 9 anni dal precedente Prismosfera. In questo Intergalactic Art Cafè, un bar situato da qualche parte dell’universo dove musicisti si incontrano per delle sessions, Alex Vittorio (basso e tastiere), Cristina Atzori (batteria) e Antonio Severi (chitarra e tastiere) si fanno accompagnare lungo il percorso da una serie di ospiti che aggiungono ulteriore spessore ad un trio già rodato di suo. Paolo Raineri si tuffa a capofitto con la sua tromba nel sound mutevole, instabile di Fuga da Algon, lungo brano dalla struttura articolata ma vitale e scorrevole, con un richiamo ai Gong e un altro agli Ozric Tentacles. In Space Surfer la tromba viene sostituita dal sax di Tony Stern, in un quadro di pura psichedelia settantiana dai densi risvolti space mai impenetrabili ma indovinati ed estrosi, capaci di non appesantire il suono già corposo della band. Indian Breakfast porta con sé fascini e incanti di mondi lontani, anche per la presenza di Alio Die che con i suoi drones si unisce alla sviluppo corale degli Stereokimono, portando l’ascoltatore in uno spazio ignoto ed eccentrico. Prerogative che si ritrovano e si confermano in Rebus (Il gioco, La metafora, La soluzione), dove Raffaello Regoli fa il verso a Demetrio Stratos, riuscendo nel compito di non apparire come un mero clone nel corso dei circa 10 minuti che compongono questa piccola suite a cavallo tra space e jazz rock. Lumacacactus  è pregna di una psichedelica vivace e contagiosa che torna ad essere strumentale e si lascia andare a momenti decisamente più robusti mentre vicina ai Gong ma anche ai Pink Floyd è The Gnome on the Moon in cui appare alla voce Nicoletta Zuccheri che dà il suo valido contributo. Energica e trascinante è Zona d’ombra, con una prestazione di Vittorio al basso davvero veemente. Oscura e misteriosa è invece la conclusiva Oltre Algon, che suggella un album bello e di non facile lettura. Un disco che deve far riaccendere i riflettori su un gruppo che per troppo tempo è stato lontano dal mercato discografico ma che ha tantissime idee a propria disposizione, che ha un progetto che manifesta competenza e che sa essere fresco e frizzante pur guardando indietro nel tempo. Disco della definitiva consacrazione. (Luigi Cattaneo)

Lumacacactus (Official Video)

sabato 8 novembre 2014

ABASH, Il Viaggio ... Ritorno al Sud (2014)


Bel rientro per i salentini Abash, piccola realtà nuovamente in pista sotto l’egida della Aereostella, label capitanata da Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio della Premiata Forneria Marconi. Un disco formato quasi esclusivamente da inediti che si riallaccia alla storia del prog nostrano imbevendolo di ritmi e umori tipici della loro terra di appartenenza. Madri Senza Terra (di cui abbiamo parlato su queste pagine) si era segnalato ai più attenti per una straordinaria mistura di progressive etnico e imparentato con la world music e anche il nuovo Il Viaggio … Ritorno al Sud segue la stessa luminosa scia. C’è forse meno carne al fuoco rispetto al disco precedente ma il risultato è assolutamente interessante ed efficace e diversi dei brani presenti non tarderanno ad entrare nella scaletta dei loro live e nel cuore di chi li segue. Prog rock meditteraneo che incontra i colori sgargianti della loro terra natia per andare a formare un percorso originale e peculiare che si abbevera tanto dai nomi tutelari come Museo Rosenbach e P.F.M., quanto da fonti popolari che si tramandano ancora di generazione in generazione. Per ottenere certi risultati gli Abash si lanciano in forsennati ritmi tribal dettati dal tamburello di Anna Rita Luceri (anche bravissima vocalist) e dall’uso accorto del dialetto, dotato qui di una grande musicalità (ne sono esempio le ottime La Malanotte e Stasira Canta). Bellissime le inflessioni world che ricordano gli Agorà di Ichinen in Bayati (che vede la partecipazione della nobile chitarra di Giorgio Buttazzo del Bermuda Acoustic Trio) e le citazioni strumentali presenti nell’iniziale Ritorno al Sud, sorta di overture tesa a presentare temi tratti da vecchi brani della band e momento parecchio progressivo. Il gruppo non disdegna incursioni in un rock più tradizionale ma comunque di rilievo (Maddalena, Il Viaggio), mostrando di potersi muovere con sicurezza anche in contesti diversi tra loro. Oltre alla già citata Luceri completano l’ensemble Maurilio Gigante (basso e anima dei pugliesi), Luciano Toma (tastiere), Daniele Stefàno (chitarre), Paolo Colazzo (batteria) e Luciano Treggiari (percussioni e flauto). La forza degli Abash anche in questo come back rimane il crossover di sonorità che trattano, instillando il loro prog con i ritmi della taranta e il fascino arcaico di un certo medioriente. Tutti questi impulsi ribollono in un calderone affascinante e ben bilanciato che fa di Il Viaggio … Ritorno al Sud un lavoro d’impatto e figlio di una scrittura consapevole e di indubbio gusto. (Luigi Cattaneo)

Stasira Canta (Live)





venerdì 7 novembre 2014

PANE, Orsa Maggiore (2012)


Una proposta che vuole travalicare gli steccati, rompere gli argini tra generi e tentare di percorrere una via alternativa fondendo in maniera equilibrata rock, jazz, progressive, folk e teatro-canzone. È l’inquadratura migliore per spiegare la terza uscita discografica dei romani Pane dopo l’esordio omonimo del 2003 e Tutta la dolcezza ai vermi del 2008. Con questo nuovo disco la band compie il definitivo salto di qualità e si pone all’attenzione di pubblico e critica come uno dei gruppi più interessanti di questi anni. Orsa Maggiore è un lavoro carico di buone vibrazioni, studiato nei minimi dettagli e figlio di una ricerca atta a creare un sound ben riconoscibile e personale. Si punta tantissimo sull’emotività in brani come L’umore o Tutto l’amore del mondo (in cui non mancano reminiscenze jazz), complice non solo la qualità melodica indiscutibile ma anche e soprattutto la forza penetrante della voce di Claudio Orlandi. Impossibile non soffermarsi sui testi di matrice colta che si adattano perfettamente alle situazioni sonore espresse e che quando non sono scritti dal gruppo vengono ripresi da fonti di un certo peso. È il caso della title-track segnata da un pregevole lavoro del flautista Claudio Madaudo e con un testo che è tratto da La nostra marcia di Majakovskij, Samaria, pezzo molto lungo che riprende Il lamento del viaggiatore di Gesualdo Bufalino e Cavallo che è un adattamento di Item ripreso da Ecchime di Victor Cavallo, composizione legata indissolubilmente al teatro in maniera più che soddisfacente. Ma la musica rimane lieve, soave, mai eccessiva o ridondante. Piuttosto magnetica e affascinante. La pazzia e Fiore di pesco ne sono fulgido esempio.  Merito dell’amalgama raggiunta tra i vari membri tra cui bisogna ricordare non solo i già citati Orlandi e Madaudo ma anche il fine lavoro pianistico di Maurizio Polsinelli, Vito Andrea Arcomano alla chitarra e Ivan Macera alla batteria. Non ci sono momenti di noia, tutto è pensato per creare unità di racconto e d’insieme in un gioco di squadra davvero apprezzabile in cui il rock viene “trattato” con distillati di folk e di progressive in cui si percepisce la cura per il particolare. Talvolta echi psichedelici e rimandi al Banco del Mutuo Soccorso portano i Pane a flirtare con la stagione dorata del prog italiano, evitando però di essere inutilmente derivativi, complice una personalità ben definita e la voglia di andare oltre certi schemi. Le qualità ci sono, la via intrapresa è quella da seguire. Consapevoli che la ricerca può portare in nuove e ancor più affascinanti direzioni. Con l’Orsa Maggiore ad illuminare.

L'umore (Video)



giovedì 6 novembre 2014

MIRTHKON, Snack(s) (2013)


Tornano i californiani MiRthkon con un nuovo e ottimo lavoro, Snacks, pubblicato per AltRock e conferma di quanto avevamo già avuto modo di constatare con il precedente Vehicle (2009). Come spesso accade per dischi di questo tipo, la cura nell’ascolto diventa essenziale per comprendere il messaggio o almeno per provare a decifrare le tortuose vie che formano il percorso proposto. Che qui è formato da un melting pot di suoni e situazioni anche in contrasto tra loro, con parti al limite dell’hard che si scontrano e si attraggono con altre tipicamente jazzate o R.I.O. La frenesia si coniuga con frangenti ragionati e brevi linee melodiche che coinvolgono con il passare degli ascolti, pur se la complessità di fondo rimane sempre molto alta. Il solido interplay chitarristico dalla coppia Wally Scharold-Travis Andrews (il primo è anche la voce e l’anima della band) è ampiamente sostenuto dalle ritmiche forsennate di Matt Lebofsky al basso e Matthew Guggemas alla batteria, ma il tutto è ammorbidito e reso ancor più fluente dai fiati di Jamison Smeltz e Carolyn Walter (flauto, sax e clarinetto). L’ironia e la follia controllata rimandano allo Zappa pensiero più verace ma le influenze che si colgono sono molteplici. L’iniziale Qxp-13 Space Modulator chiarisce subito che la forza dirompente è l’arma principale dell’esplosivo sestetto, così come la schizofrenia presente in Eat a Bag of Dix indirizza l’ascolto verso lidi di non facile lettura. Splendidi gli intrecci jazz rock di Hapax Legomena, i rimandi classici stravolti di Nocturne, Op.33 e l’attitudine più marcatamente progressive di una mastodontica The Cascades. Funambolismi ritmici segnano Snack(s)-The Song!, mentre Osedax si pone vicina ai canoni del Rock In Opposition e Miramidae conferma la voglia di ricerca e libertà insita in questi stralunati americani. Variety Pack ha un mood più rilassato e canterburiano e ha il compito di fungere da apripista per il finale tributo ai Black Sabbath di Fairies Wear Boots! Snack(s) è un album che ha le carte in regola per suscitare parecchio interesse negli appassionati di jazz rock e R.I.O. e in tutti quelli che hanno una discreta apertura mentale verso generi contaminati ed essenzialmente crossover. (Luigi Cattaneo)

The Cascades (Live)

lunedì 3 novembre 2014

MIRIAM IN SIBERIA, Failing (2014)


Failing è il terzo album dei Miriam in Siberia (Ferdinando Puocci alla voce e alla chitarra, Bartolomeo D’angelo alle tastiere, Luciano Corvino al basso e Costantino Oliva alla batteria), gruppo dedito ad un hard rock psichedelico tagliente, aggressivo, oscuro e pervaso di synth che ci conducono in scenari dal sapore mistico e spaziale. Registrato nei Trail Studio di Napoli e masterizzato a New York, Failing riprende il discorso già avviato con l’album precedente, andando a marcare ancor di più l’attitudine rock e mostrando di viaggiare verso la definitiva maturità. L’utilizzo dell’inglese avvicina i campani al panorama internazionale di band simbolo come Pontiak, Black Mountain (forse la loro vera fonte d’ispirazione) e Arbouretum, complice anche un sound sempre più attuale, energico e dalle atmosfere imponenti. I cinque brani di questo come back sono piuttosto diretti, hanno una forza quasi heavy, già a partire dall’iniziale title track, un hard psichedelico tratteggiato dai sintetizzatori che sono specchio fedele di cosa dobbiamo aspettarci nella mezz’ora scarsa dell’album. Sensazioni doom in Rise your hands, brano dall’andamento quasi solenne ed epico, mentre Down from a Mountain è una bella ballata oscura dal sapore settantiano. We wanna Know torna su territori hard psych, prima della conclusiva cavalcata Don’t Anyone, forse il pezzo più interessante tra i presenti, soprattutto nella parte centrale, ben strutturata e maestosa. I Miriam in Siberia convincono e si muovono con qualità lungo percorsi hard e psichedelici sempre piuttosto oscuri, ispirandosi a quanto accade con ottimi risultati in America, utilizzando in maniera efficace i synth e l’hammond dal vago sapore progressive. Gruppo da tenere d’occhio. (Luigi Cattaneo)

Qui di seguito il link per ascoltare Failing

sabato 1 novembre 2014

PROG EXHIBITION, Annullata la prima serata!!!

La prima serata del festival PROG EXHIBITION prevista per 
venerdì 7 novembre 2014 al Teatro Linear4Ciak di Milano, è stata annullata.

Tutti gli spettatori potranno richiedere il rimborso del biglietto – presso i punti vendita e i canali di acquisto - entro giovedì 13 novembre 2014.

Gli spettatori in possesso del biglietto relativo alla replica del 8 novembre potranno accedere regolarmente.

Per chi avesse acquistato l'abbonamento alle due serate è quindi necessario chiedere il rimborso dell’importo totale del pacchetto e riacquistare il titolo di ingresso per la sola serata di sabato 8 novembre. I rimborsi degli abbonamenti potranno essere effettuati presso i punti vendita e i canali di acquisto entro giovedì 13 novembre 2014.

Il giorno 8 novembre saranno in scena la visionarietà della PFM che esegue a grande richiesta Stati di immaginazione, uno dei suoi capolavori, e a seguire il suoi grandi successi in compagnia del grande Lindsay Kemp (il famoso mimo, regista/coreografo artisticamente legato ai tour di David Bowie, Genesis e Kate Bush) e di Mel Collins colonna dei King Crimson. Le Orme festeggiano il quarantennale di Contappunti con una rilettura breve del disco seguita dal meglio della loro produzione. Il rock progressive venato di jazz sarà invece presente nella musica degli Agorà mentre i Fiaba apriranno la seconda serata con la loro la musica trascinante e le storie fantastiche, ospitando la splendida voce di Valentina Blanca.

D&D Concerti comunica che non mancherà l'occasione per ascoltare gli altri artisti previsti per il 7 novembre.

CONCERTI DEL MESE, Novembre 2014

Sabato 1
·Red Rex Casa di Alex (Milano)
·Maybeshewill Torino
·Dark Ages Scandicci (FI)

Lunedì 3
·Opeth Milano

Martedì 4
·Bigelf Milano

Giovedì 6
·Basta! Prato
·Massimo Giuntoli Fol de Rol Lecco
·Camelias Garden Cagliari

Venerdì 7
·Mater Dea a Milano

Sabato 8
·Prog Exhibition Milano
·Martin Barre Lugagnano(VR)
·Dark Ages Teatro Astra S. Giovanni Lupatoto (VR)
·Fates Warning Torino
·Posto Blocco 19 Felino (PR)
·Napoli Centrale Roma

Domenica 9
·Fates Warning Brescia
·Martin Barre Roma
·Genesis Piano Project Cusano Milanino (MI)

Mercoledì 12
·Slivovitz Napoli

Venerdì 14
·The Musical Box Milano

Sabato 15
·Il Tempio delle Clessidre Genova
·PFM Chiasso (Svizzera)
·Konk Pack S. Vito Leguzzano (VI)
·Il Giardino di Epicuro Lugagnano (VR)
·M Giuntoli Pie Glue Centro Pertini Cinisello Balsamo (MI)
·Lingalad Libreria dei Ragazzi Ore 17 (Milano)



Domenica 16
·The Musical Box Roma
·Konk Pack Forlì
·Threshold Brescia
·PoiL Lugano (Svizzera)

Martedì 18
·The Musical Box Genova

Mercoledì 19
·The Musical Box Firenze

Giovedì 20
·Peter Gabriel Torino

Venerdì 21
·The Watch Roma
·Peter Gabriel Casalecchio (BO)
·Sintonia Distorta Lodi
·Sbibu Cremoni & Gonzales Club Il Giardino Lugagnano (VR)
·Void Generator Roma
·Slivovitz Pozzuoli (NA)

Sabato 22
·Court Cantine Coopuf ore 18:30 (Varese)
·Biglietto per l'Inferno Lecco

Domenica 23
·Henry Cow & Others Forlì
·Twinscapes Gallarate (VA)
·Roccaforte Bosco Marengo (AL)
·Dropshard Concorezzo (MB)

Lunedì 24
·Twinscapes Roma
·Epica Milano

Martedì 25
·Twinscapes Alzate di Momo (NO)
·Epica Roma

Mercoledì 26
·Fish Assago (MI)
·Twinscapes Milano

Giovedì 27
·Fish Roma
·Abash Live Forum Assago (MI)

Venerdì 28
·Fish Firenze
·Roccaforte Castellazzo Bormida (AL)
·Don Airey Thiene (VI)
·Dark Ages Modena

Sabato 29
·Mater Dea Romagnano Sesia (NO)
·Røsenkreütz + Proteo Casa di Alex (Milano)
·PFM Firenze
·Anyway + Mother Goose Torino
·Trewa (Unplugged) Parma
·Reverie Milano

Domenica 30
·Fish Mestre (VE)
·Lachesis Paprika Jazz Club Dalmine (BG)
·Court Lonato (BS)
·Delta Saxophone Quartet Milano

domenica 26 ottobre 2014

LA1919, False Memory Syndrome (2014)


Nati nel 1980 a Milano, grazie all’impegno di Piero Chianura (basso e synth) e Luciano Margorani (chitarra), La1919 è un progetto strumentale basato sulla composizione istantanea. Sono stati tra i primi gruppi italiani a realizzare dischi infarciti di ospiti in epoca pre-internet (scambiandosi nastri per posta) e hanno al loro attivo sei dischi in studio e due live, oltre che vantare collaborazioni con personaggi dell’area progressive e sperimentale come John Oswald, Chris Cutler (Henry Cow), Franco Fabbri (Stormy Six) e Fabrizio Spera. La musica dei La1919 è una fusione di generi che nel suo percorso ha raggiunto una forma propria senza dubbio più fruibile di quanto non fossero i primi lavori pubblicati. Questa nuova produzione, uscita per Artisti Del 900, prevede l’entrata in scena del valoroso Federico Zanoni alla batteria, che va ad unirsi ai già citati Chianura e Margorani. Questo in realtà non ha modificato il modus operandi del gruppo, sempre più convinto del percorso improvvisativo e strumentale libero da clichè. False Memory Syndrome non fa dunque eccezione e si muove su coordinate sicure in cui è possibile incontrare passaggi oscuri e tortuosi, melodici e vibranti. È un fluire di suoni e trovate piuttosto interessanti e a volte di difficile catalogazione, in un percorso dove le idee si sviluppano in modo armonioso e brillante. L’iniziale Fuzzy Trace Theory è una dichiarazione d’intenti. Il sound settantiano si dipana attraverso un groove ritmico imprevedibile e a spunti chitarristici di rilievo, con un mood psych sottolineato dall’ottimo interplay tra le parti. Spezie psichedeliche che aumentano in Marion Crane, con Margorani dispensatore di elementi ora più grevi ora più suadenti e una sezione ritmica che non perde un colpo e accentua le piccole sensazioni che si percepiscono lungo un tragitto infarcito di pulsioni tipiche dei ’70. In Uncle Dog Margorani arriva ad utilizzare una parte di Squarer for Maud dei National Health, in quello che è uno degli episodi maggiormente prog tra quelli proposti. In Falsi Incidenti troviamo alcuni degli elementi più cari ai La1919: ritmiche intricate, frangenti chitarristici di grande effetto, parti di Rock In Opposition, il tutto suonato con espressività e dinamismo. Torna la psichedelia in Progetti di grandi città con terrazze, con il trio davvero in stato di grazia (Margorani in testa). Il lato B è dominato da una sorta di suite divisa in cinque sezioni che si fa apprezzare per un flusso da jam band, inarrestabile e costruito con una certa padronanza. Cambi di tempo improvvisi e avanguardia (Hawaii 5.0), rumorismo psicotico (Il sogno di FF), dark wave (Una giornata particolare-ore 18), giochi armonici memori della lezione dei King Crimson (Una giornata particolare-ore 12), melodie autunnali e uggiose (Carla). False Memory Syndrome è un disco di pregio che rimette in moto la macchina La1919, con la speranza che i milanesi riescano ad emergere almeno un po’ dal sottobosco musicale in cui appaiono relegati da sempre. Lo meriterebbero davvero. (Luigi Cattaneo)

Fuzzy Trace Theory (Video)

mercoledì 22 ottobre 2014

WRUPK UREI, Koik Saab Korda (2012)


La sempre prolifica AltrOck di Marcello Marinone ci delizia ancora una volta con una sorprendente band estone che farà la gioia di quanti seguono la scena del nord Europa e amano le sonorità di act come i lontani Kaseke, i più noti Jaga Jazzist e i nostrani Accordo dei Contrari. Un vero piacere l’ascolto di questo Koik Saab Korda, disco strumentale pieno di grandi spunti melodici che denotano una certa cura in fase compositiva, pur non dimenticando di lasciare il giusto spazio per guizzi individuali di pregio. Un calderone che ribolle di suoni in cui la parte del leone è lasciata al trio di fiati a disposizione (sax baritono, trombone e tromba) e alla chitarra ruggente di Siim Randveer, in una band composta addirittura da sette elementi. Inventiva, forza propulsiva, dinamismo, ingredienti alla base di un lavoro di grande raffinatezza, convincente praticamente per tutta la sua durata. Gli Estoni alternano momenti più muscolari e sanguigni ad altri decisamente atmosferici, calandosi con nonchalance in situazioni diverse tra loro, mostrando di avere sempre il giusto piglio e capacità tecniche di rilievo. Attacchi di synth, tempi dispari varianti, interplay ragionato ma che si sviluppa in frangenti estrosi e arrembanti, il tutto sorretto da idee che l’ensemble riesce a tradurre in modo organico e suggestivo. I concetti che sviluppano conoscono ben pochi attimi di stanca e ascoltare le trame sofisticate di Termiitide Tervitus o Tagasi Tulevikku … ja Tagasi è un vero piacere, soprattutto per come il gruppo sa essere trascinante e incisivo. Lungo il percorso i Wrupk Urei sono in grado di mutare pelle, di portarci in territori fusion o di accelerare in direzione di un jazz rock fremente e frizzante, così come di evidenziare riferimenti al Canterbury sound, sempre mantenendo alto il livello delle tracce. Non mancano frangenti dilatati al limite della psichedelia, sempre suonata con un “tiro” invidiabile ed un efficace amalgama tra gli strumenti a fiato e quelli a corda, vero punto di forza del gruppo. Koik Saab Korda è uno dei dischi più interessanti nel suo genere tra quelli usciti quest’anno e un plauso va fatto anche all’AltrOck che ha il coraggio di distribuire dischi che difficilmente potrebbero trovare spazio in questo desolante panorama di talent e reality musicali. (Luigi Cattaneo)

Qui di seguito la pagina bandcamp del gruppo