Gli anni ’70 sono spesso stati caratterizzati dalla
voglia di sperimentare, di osare, di non avere paletti ma di creare nuovi
percorsi in cui muoversi ed esprimersi. Caratteristica ovviamente non comune a
tutti ma che abbiamo spesso ritrovato, soprattutto ad inizio decennio, quando
la curiosità e la voglia sfrenata di avere un sound originale portava i
musicisti a rompere con la tradizione o ad utilizzarla per sviluppare qualcosa
di diverso. Anche il Progressive non è esente da tali “regole”, basti pensare a
tutte quelle band che riuscirono ad avvicinare il rock alla musica classica (Concerto grosso dei New Trolls è
l’esempio più lampante) o al jazz, riuscendo ad abbattere barriere che
opprimevano e non lasciavano la possibilità di sviluppi più elaborati. Ma
queste esigenze non furono espresse solo dai gruppi ma anche da una miriade di
cantautori che flirtavano con certe sonorità. Lecito quindi parlare di
cantautori progressivi vista la mole di lavori a noi giunti e che spesso
risultavano essere anche di buona fattura. Difficile non citare in un analisi
del periodo artisti fondamentali come Franco Battiato o Claudio Rocchi, gli
insospettabili Alan Sorrenti e Lucio Battisti, i meno noti Mario Barbaja ed Enzo
Capuano. Questo primo numero di Canto di
Primavera è dedicato ad Aria,
album del 1972 con il quale Alan Sorrenti (fratello di Jenny Sorrenti dei Saint
Just) si presentava al pubblico in una veste atipica alla luce di quella che è
stata la sua carriera negli anni a venire.
Difficile credere ad un primo ascolto che dietro a
tale esigenza comunicativa ci fosse il buon Sorrenti. Ed invece per alcuni anni
(almeno il biennio 1972-73) il cantante si avventurò verso soluzioni che si
potrebbero definire di folk psichedelico tutt’altro che di facile assimilazione,
utilizzando la sua voce come nessuno in quel momento in Italia.
È proprio Aria,
posta in apertura, con i suoi 20 minuti di durata, a portarci nel mondo
incantato di Alan. La title-track in questione è il vero pezzo forte del disco,
il brano guida dove Sorrenti sperimenta maggiormente e utilizza la voce come un
vero e proprio strumento. Come dicevo poc’anzi, vista la data di pubblicazione,
nessuno almeno in Italia si era ancora permesso di usare la voce in maniera
così estrema e fuori dai canoni comuni. Il risultato è assolutamente valido,
non ci troviamo di fronte ad una sperimentazione fine a sé stessa e questo è
dovuto anche ad una band di primo livello, con un eccellente lavoro ritmico di
Toni Esposito alla batteria e alle percussioni, le tastiere (piano, hammond,
mellotron) di Albert Prince, il violino di Jean Luc Ponty e il basso di
Vittorio Nazzaro. Il brano è una girandola di suoni psichedelici in cui si
lascia ovviamente ampio spazio alla voce di Sorrenti, che può richiamare alla
mente Peter Hammil e Tim Buckley, che risulta sì virtuosa, ma anche sofferta e
ipnotica.
Tutta questa complessità è bilanciata dalla successiva
Vorrei incontrarti, una dolce ballata
folk dal piglio decisamente diverso che invece conquista dal primo ascolto. A
testimonianza di ciò basti pensare alle diverse versioni che nel corso degli
anni si sono susseguite di questo piccolo classico della musica italiana, anche
da parte di artisti lontani dal progressive come Andrea Chimenti e i La Crus.
Peccato che La mia mente perda quella
freschezza e quel brio che aveva sin ora contraddistinto l’album, anche se
sicuramente non viene meno la verve vocale di Sorrenti, sorretto da un tappeto
ricercato di suoni e umori che non sempre convincono. Si lascia preferire la
conclusiva Un fiume tranquillo, dove
brilla la performance di Andrè Lajdli alla tromba, anche se il meglio di questo
esordio è indubbiamente nelle prime due tracce.
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