Ci sono stati, negli
anni ’70, popoli che lontani tra loro hanno condiviso la passione per uno stile
di musica, il progressive (anche se la definizione è postuma), che univa rock,
musica classica, psichedelia, jazz, folk, in un meltin pot sonoro estremamente
variegato e variopinto. Abbattere certi confini per crearne di nuovi. E così è
stato, se si pensa che il “morbo” progressivo contagiò non solo i paesi
occidentali ,dove effettivamente tutto il movimento si è creato, con Gran
Bretagna in testa seguita a ruota da Italia, Germania e Francia, ma si
interessarono alle nuove sonorità le più disparate nazioni, con risultati anche
davvero ottimi. Leggenda vuole che diversi gruppi progressivi dell’ Europa
dell’est abbiano avuto parecchi problemi per quello stile musicale troppo
occidentale… I Fermata, jazz rock band proveniente dalla Repubblica Ceca,
furono contrastati dall’allora regime comunista per l’introduzione di ritmi e
sonorità occidentali; stessa sorte per i conterranei Blue Effect che furono
addirittura costretti a modificare il loro monicker in Modry Efekt; i Yugoslavi
Korni Grupa Kornelyans cercavano di non allungare troppo i loro brani per non
crearsi problemi con il regime che non vedeva di buon occhio il loro amore per
il progressive italiano; infine mi preme citare i rumeni Phoenix, gruppo dalla
storia piuttosto bizzara e travagliata. Difatti partiti come Sfintii (I Santi)
nel 1962 sono costretti dal regime a cambiare nome per poter suonare ancora,
salvo poi vedere una loro opera del 1973 boicottata con tagli tali da ridurre
il disco ad ep. Si narra addirittura di fughe dal paese nascosti nelle custodie
degli amplificatori! C’è stato un continente che ha accolto più di ogni altro gli
imput provenienti soprattutto dall’Inghilterra e dall’Italia e li ha rivisitati
alla luce di una cultura, anche popolare, che non ha eguali, il Sud America.
Ogni paese che lo forma ha dato un contributo importante, trapiantando in un
proprio codice genetico certi suoni che avevano fatto breccia nei cuori degli
appassionati europei, impastando il tutto con colori e umori tipici della
propria terra. Ovviamente anche qui ci sono stati casi più eclatanti e
imitatori, gruppi fondamentali e altri trascurabili. Una delle band principali
è quella dei Bubu, argentini artefici di un unico e sublime disco, Anabelas, del 1978. Mentre in Europa il
rock progressivo iniziava a leccarsi le ferite, spazzato via dalla voglia di
tornare ad un sound più asciutto e immediato dettato dalle nuove tendenze del
punk e della new wave, in Argentina il movimento progressivo, pur se molto
underground, aveva ancora delle cartucce da sparare. E che cartucce verrebbe da
dire ascoltando l’esordio dei Bubu, uno di quei lavori di cui è difficile non
innamorarsi. Si parte subito con il pezzo forte dell’album, la suite
strumentale di 20 minuti circa El Cortejo
de un dia amarillo, dove si sprecano i cambi di tempo e di atmosfera,
complice la ricca strumentazione a disposizione degli argentini, in un suono
che sovrappone con sorprendente armonia il sax di Win Fortsman, il violino di
Sergio Polizzi, il flauto di Cecilia Tenconi e la chitarra di Eduardo Rogatti.
A volte questo articolato assortimento sonoro ricorda la follia calcolata di
Frank Zappa e la complessità strutturale dei migliori Gentle Giant. Un rischio
che pare calcolato vista la grande dimestichezza tecnica di cui dispongono i
Bubu, perché anche quando il pezzo sembra senza una precisa direzione spunta sempre
il colpo d’ali che rimette in riga le cose. E questa è caratteristica spesso
dei grandi. Inoltre i confini il cui si muove la suite è spesso labile. Oltre
al già citato Zappa e ai Gentle Giant, i Bubu si avvicinano anche ai King
Crimson, soprattutto grazie alla fantasiosa sezione ritmica formata da Eduardo
Fleke Folino al basso ed Eduardo Fleke Corbella alla batteria e al jazz rock
dei Soft Machine. In un quadro così variegato i Bubu si muovono con classe e
qualità riuscendo a creare un brano immortale di tutto il rock progressivo, non
solo di quello sudamericano. Anche la seconda traccia, El viaje de Anabelas, è piuttosto lunga e complessa, con i suoi 11
minuti di durata. L’inizio vede protagonista Polizzi con il suo flauto a cui
ben presto si accorpano il violino e il sax, finchè non si giunge al primo e
lirico momento cantato da parte di Petty Guelache. Ma è solo un attimo perché
subito la band si tuffa con foga nel creare un altro grandissimo momento strumentale,
con i fiati e il violino a rimarcare con forza la tensione espressiva che
davvero caratterizza tutto il brano, con richiami al progressive dark dei Van
Der Graaf Generator, al jazz e al Canterbury sound. Chiude l’album Suenos de Maniqui, imprevedibile traccia
che alterna accelerazioni frenetiche ma ragionate in cui chitarra e violino si
lanciano in una folle corsa a grande velocità e sprazzi più sobri in cui si fa
valere anche Guelache che risulta molto espressivo e caldo. Stupisce la
simbiosi tra le parti più furiose e psichedeliche, con una sorta di
romanticismo magico che lega la terra di appartenenza con i Jethro Tull più
ispirati. Anabelas è un disco
completo, emozionale, memorabile. Non ci sono cali di tensione o momenti insignificanti
e la tavolozza sonora utilizzata è invidiabile. Le grandi doti tecniche di cui
dispongono consente all’ensemble di passare con facilità dal progressive
sinfonico alla psichedelia, passando attraverso la fusion e il jazz rock, senza
dimenticare un certo fascino tipico dell’ America Latina, dettato soprattutto da
alcune atmosfere e dal cantato spagnolo. Un piccolo tesoro nascosto che
purtroppo come spesso è capitato non ha avuto un seguito, ma che si deve
preservare dalla scomparsa. Tenere viva la memoria aiuta. (Luigi Cattaneo)
Anabelas (Full Album)
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