sabato 19 ottobre 2019

PAXORA, Apocalisse (1975) - Intervista a Giuseppe Di Stefano



Pubblichiamo la recensione del rarissimo Apocalisse dei Paxora e la successiva intervista al loro bassista, da poco scomparso, Giuseppe Di Stefano. Entrambe furono pubblicate su Contrappunti, trimestrale del Centro Studi Progressive Italiano nel giugno 2010. 




I Paxora, come tanti gruppi progressive dei ’70, sono stati autori di un unico disco, anzi di una suite di 30 minuti circa, che per di più non è mai stata pubblicata da nessuna casa discografica. Un prodotto quindi che mi è arrivato grazie alla caparbietà di Giuseppe Di Stefano, bassista della band, che ha conservato per più di 30 anni questa registrazione amatoriale, dapprima in cassetta e poi in cd. Non si poteva non dare spazio a cotanta passione!
Si parte con Intro (faro), straniante e brevissima composizione che ci conduce alla successiva Intro (groove), che fa leva sul suono incessante del basso di Di Stefano, sulla chitarra effettata di Massimo Torboli e sulla batteria in lontananza di Massimo Minichiello, per quello che rimane un episodio free all’interno del disco stesso, una sorta di introduzione parte seconda leggermente più lunga ed articolata.
Intro 3 (pink) è il primo vero brano del disco, un momento di chiara impronta psichedelica, che soprattutto nei suoni di chitarra ricorda i Pink Floyd. Il pezzo prende vita nel momento in cui subentra la sezione ritmica a sostenere l’azione del bravo Gianguido Bruno, che si amalgama molto bene con l’altro chitarrista. Nei suoi oltre 5 minuti il brano si avventura, nella seconda parte, in lidi più vicini al progressive strumentale che alla psichedelia.
Riff è un brano dal retrogusto jazz molto piacevole ed è una sorta di introduzione alla successiva composizione. Peccato perché il brano ha in sé un’idea melodica davvero valida che poteva essere sviluppata in maniera adeguata, invece risulta solo un momento di collegamento. Pretema-tema è un brano di valore che parte in maniera soffusa, per poi esplodere improvvisamente con la partecipazione di tutta la band che mostra di avere una certa compattezza. Anche qui però si ha la sensazione che si potesse articolare maggiormente la composizione, che invece si esaurisce troppo frettolosamente.
Ritornello (colori vari), dal vago sapore jazz, mette in mostra le qualità di Bruno, che esegue un solo di grande intensità, accompagnato egregiamente dalla sezione ritmica. Si tratta di uno dei momenti più fluidi di tutta la suite, in cui si sviluppano idee e sonorità davvero interessanti. Se tutti i brani avessero avuti questa intensità ci saremmo trovati di fronte ad un lavoro molto valido …
La successiva Break-minisoli vede la batteria di Minichiello dialogare delicatamente con il piano e il basso, ma il brano è molto breve e non aggiunge granchè dal punto di vista della composizione. Evitabile Lamentazione, ossia voci sovrapposte fino alle urla finali.
Segue 118 intro, indiavolato prog strumentale in cui ancora una volta il gruppo dà sfoggio delle sue qualità tecniche e della sua passione anche per il jazz. Risulta essere il brano migliore e forse anche il più complesso musicalmente.
Lento-ostinato-end rappresenta un ottima chiusura per la suite, con il suo lento incedere di basso e batteria, su cui interviene ancora una volta il bravo Bruno che fa decollare del tutto il brano.
L’impressione che si ha anche dopo svariati ascolti è che la band avesse un potenziale maggiore rispetto a quello che poi emerge realmente su disco. Tutta la suite oscilla tra momenti davvero interessanti e apprezzabili, sia a livello tecnico che di composizione, ad altri dove la band pare voglia avvicinarsi ad una forma di sperimentazione che però rischia di diventare fine a sé stessa. Inoltre ci sono delle parti della suite che hanno al loro interno delle ottime idee ma che non vengono poi sviluppate adeguatamente. Il gruppo appare martoriato da una registrazione che per ovvi motivi non era professionale e quindi è difficile distinguere al suo interno il suono del piano di Riccardo Scandiani. Peccato perché errori di gioventù a parte quando il gruppo si esprime come sa (suonando quindi) ne vengono fuori delle belle.



Intervista Giuseppe Di Stefano

 di Luigi Cattaneo e Marco Causin

Giuseppe Di Stefano inizia ad appassionarsi al basso elettrico come oggetto di liuteria e di trasduzione elettroacustica e ai suoi sistemi di amplificazione fin da giovane. Come strumentista ha acquisito un’esperienza che gli ha permesso negli anni di collaborare, nei più disparati generi musicali, con un gran numero di musicisti. Avendo iniziato sin da bambino a suonare il basso ha toccato vari generi, dal beat al prog, dal blues al jazz passando per la fusion. Da qui lo spunto per una chiacchierata con chi ha partecipato alla stagione d’oro del rock progressivo militando in una piccola band del ferrarese, i Paxora.

Giuseppe iniziamo con qualche tuo ricordo legato ai Paxora, la band di cui hai fatto parte a metà anni ‘70
Come Paxora iniziammo a suonare insieme nel 1974 e l’anno dopo registrammo il disco. Io avevo conosciuto qualche anno prima Ricky Scandiani, che poi sarebbe diventato il tastierista dei Paxora, avevamo 17-18 anni. Ad inizio ‘75 iniziammo a suonare in giro, cose piccole, tipo concerti nelle scuole ed eseguivamo brani di nostra composizione che purtroppo sono andati persi. Me ne ricordo uno a Milano in cui suonò anche Lucio Daddi che poi sarebbe diventato chitarrista per Bennato e Clapton. In realtà con Scandiani iniziai a suonare nel 1972 negli IVA, ma non riuscimmo a registrare nulla.

Chi erano i musicisti del gruppo?
Oltre al sottoscritto al basso e a Riccardo Scandiani al piano c’erano Gianguido Bruno e Massimo Torboli alle chitarre e Massimo Minichiello alla batteria.

Riuscivate a promuovere il gruppo dal vivo?
Dopo aver composto dei brani riuscimmo a suonare soprattutto nella zona vicino Ferrara e la risposta del pubblico era davvero ottima. In un concerto allo stadio di Comacchio c’erano migliaia di persone e ricordo che a gestire il service c’era la Davoli, che era una delle ditte più importanti in Italia. Alla fine del concerto uno dei responsabili della Davoli ci propose di lavorare con loro in un eventuale tournèe. Proprio grazie alle nostre esibizioni live siamo entrati in contatto con Roberto Roda, che ci chiese di comporre una colonna sonora di accompagnamento per una sua mostra di diapositive fotografiche. In una settimana Bruno e Torboli riuscirono a portare a termine ciò che poi avrebbe preso il nome di Apocalisse. Io scrissi solo i 2 intro iniziali. Difatti la suite fu opera dei due chitarristi. Anche perché il gruppo ruotava attorno al suono di Bruno. Tra l’altro ricordo che mi era capitato di assistere un giorno alla mostra al Palazzo Diamanti di Ferrara e di essere rimasto sorpreso da come il pubblico si soffermasse a discutere sulla nostra musica. Credo che questo non abbia mai fatto molto piacere a Roda!

Come avete registrato il disco?
Lavorammo a Ferrara nella sala Estense, un piccolo teatro, sotto la supervisione di Wolfango Morelli nelle vesti di produttore. Registrammo tutto in presa diretta, con due microfoni e senza mixer. Anche per questo i due chitarristi e il batterista si sentono molto di più nella registrazione.

Era quindi un disco autoprodotto?
Assolutamente sì. Avevamo una bobina da cui poi facemmo alcune cassette. Una di queste è stata in mio possesso per circa 20 anni. La suite non venne pubblicata e quando qualche anno fa è stato messo in produzione il cd recorder ho trasferito la musica in digitale. Tutto qui.

L’avventura Paxora durò poco però…
Sì, nel 1975, dopo la registrazione di Apocalisse, il gruppo si sciolse. Il progressive iniziava a non interessare più e gli appassionati iniziarono a dirigersi verso la musica cantautorale che era molto forte in Italia. Inoltre c’era la questione della politica. Noi non avevamo mai preso posizioni in tal senso e quindi automaticamente iniziarono a pensare ai Paxora come ad un gruppo di destra. Ci sentivamo spaesati. Ricordo a tal proposito un episodio singolare che risale al nostro ultimo concerto tenuto nello stesso teatro dove avevamo registrato il disco. Ci aveva invitato a questa serata un movimento anarchico ma quando arrivammo invece di farci suonare si presero in “prestito” i nostri strumenti! Solo dopo questo “prestito” ci hanno permesso di suonare, coprendoci però di fischi ancor prima dell’esibizione …

Mi pare di capire che solo qualche mese prima il pubblico apprezzava le vostre performance…
Sì, solo 6 mesi prima avevamo avuto la possibilità di registrare il lavoro e di riceve apprezzamenti da più parti. Era mutato tutto davvero molto in fretta. Tu pensa che solo qualche mese prima l’Arci di Ferrara aveva proposto noi come gruppo spalla per una tournèe con Banco e P.F.M. che poi non è mai andata in porto!

Ma erano presenti dei locali a Ferrara e dintorni che supportavano l’attività live delle band?
No, non c’era molto. Difatti erano quasi tutti spazi autogestiti. Suonammo in un concerto organizzato dall’Avis di Ferrara, in uno della Democrazia Proletaria e in serate all’aperto. Se non avevi un manager o una casa discografica alle spalle le difficoltà erano enormi.

Dopo i Paxora i membri della band hanno continuato la loro attività musicale?
Io ho poi suonato intorno al 1978 nei Rodigium Jazz quartet e abbiamo anche fatto da spalla ai Napoli Centrale allo stadio Battaglini di Rovigo. Ho poi negli anni ’90 scritto composizioni per basso prima di tornare a suonare con vari gruppi della zona. Ricky Scandiani nel 1982 ha pubblicato una rock opera, Roadissea, so che si era avvalso in studio della collaborazione di Ares Tavolazzi. So che ha poi suonato con Lucio Dalla, Andrè De La Roche, J. Monque (armonicista di New Orleans n.d.r.). Inoltre è dal 2006 che insegna pianoforte ad indirizzo rock, pop e blues alla Scuola di Musica Moderna di Ferrara. Anche Massimo Torboli e Gianguido Bruno hanno continuato a suonare e con il Trio Jazz Acustico hanno vinto nel 2005 il premio del pubblico al Palermo Film Festival per la colonna sonora (davvero valida n.d.r.) del film Il bistrot dei cineasti indipendenti per la regia di Rita Andreetti. Massimo Minichiello so che ogni tanto suona ancora ma non con continuità.

So che tu hai una vera e propria passione per gli strumenti, a prescindere dal basso…
Ho iniziato sin da piccolo, a 11 anni e senza aiuti, anche perché non avevo musicisti in famiglia. Un estate a Recoaro Terme c’era un orchestra che la mattina suonava per 2 ore e io andavo a sentirli sempre, li ho seguiti per due mesi! Mi sedevo in prima fila e guardavo il bassista, lo studiavo. Praticamente ho imparato così! Il basso mi interessa come generatore di suono, sono ossessionato dal suono e dalla sua ricerca ed è per questo che ho così tanti bassi.  

Che percezione avevi di quel periodo che stavate vivendo da musicisti?
Io vivevo il prog non solo come musica ma come vera e propria ideologia culturale! Erano momenti creativi e magici, anche se il termine è abusato. Non eravamo consapevoli che quello che stavamo vivendo sarebbe diventato un momento storico per la musica italiana. Si pensava che il giorno dopo sarebbe stato meglio del precedente musicalmente parlando e che noi giovani potevamo migliorare la società proprio con la musica. Invece ad un certo punto tutto si è fermato e le cose vecchie sono diventate oggetto di culto. Ma c’era un fermento culturale davvero notevole in generale.

Ti ricordi di qualche band della vostra zona particolarmente valida?
Devo dire che musicisti validi in quel periodo ne ho visti … Però più che nel ferrarese mi ricordo di un gruppo veneto, gli Eneide (autori di un unico disco, Uomini umili popoli liberi n.d.r.). Conoscevo Gianluigi Cavaliere che era il cantante del gruppo. So che dopo gli Eneide ha lavorato con Maurizio Arcieri, ha fatto il fonico per anni e ha costruito un suo studio in un casolare! Da Rovigo, la zona dove noi Paxora avevamo la “base” operativa non mi pare siano usciti dei gruppi. C’erano i Centro Atomico Camate, un gruppo molto politicizzato che si rifaceva agli Stormy Six.


 Come hai vissuto la decadenza del genere nella seconda metà dei ’70?
Molti hanno iniziato a sfruttare la tecnologia degli anni ’80 per fare musica in solitudine. Questa per me è stata una delle grandi differenze rispetto alla decade precedente. Il digitale, i sequencer, le basi, permettevano al musicista di suonare da solo, quasi non ci fosse più bisogno di un gruppo. Già a metà anni ’70 proporre prog non era facile, figurati dopo! Pensa anche a molti grandi gruppi del nostro prog che tipo di sonorità hanno dovuto adottare negli anni ’80.

Tu hai dei progetti nuovi attualmente?
Suono in un gruppo di cover rock-blues e in due band di rock progressivo, gli Elisir D’ambrosia e i Quanah Parker.

Come vedi il futuro del genere?
Io credo che per la sua capacità di avere situazioni armoniche e melodiche molto sofisticate si può parlare tranquillamente di musica colta. Come il jazz 30-40 anni fa non veniva considerato molto dai Conservatori così avverrà per il progressive. Penso che tra qualche anno il prog entrerà di diritto nei programmi musicali dei Conservatori italiani, cosa che credo già accada in altri paesi europei.

C’è qualche band nuova che ti ha particolarmente colpito?
Personalmente ascolto molto il jazz e la fusion e la scena attuale non la seguo particolarmente, però mi hanno colpito positivamente i Randone, davvero un ottima band!

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