Ultimamente la toscana
ci sta regalando band prog rock davvero interessanti e dopo Spettri, Basta! ed
Eveline’s dust (giusto per fare qualche nome), ecco la volta dei The Forty Days
(Giancarlo Padula alla voce e alle tastiere, Dario Vignale alla chitarra,
Massimo Valloni al basso e Giorgio Morreale alla batteria), quartetto tra i più
apprezzabili del 2017 appena trascorso. I sette brani di The colour of change mostrano davvero un songwriting di tutto
rispetto, che punta molto sul pathos, con un occhio attento all’aspetto emotivo
e melodico, un debut che risalta un gruppo dalle tante doti e già piuttosto
maturo. L’unione di rock settantiano, psichedelia e new prog ricalca le trame
care ai maestri Pink Floyd (soprattutto nel fine lavoro di Vignale), ai
Marillion post Fish e ai maggiormente contemporanei Porcupine Tree e Anathema,
in special modo per quella capacità di strutturare situazioni fortemente
comunicative ed emozionanti. Veramente una piccola perla questa targata Lizard
Records, un concept molto sentito che descrive i pensieri e le paure di un
trentenne nella complicata società attuale, manifestando idee ispirate e
interessanti per tutta la sua durata. La partenza di Looking for a change è piuttosto floydiana, andando a toccare anche
brillanti sezioni neo progressive, così come la strumentale Uneasy dream pone l’accento sulle
qualità tecniche del gruppo. The Garden e
i nove minuti di Homeless sono tra le
tracce più belle del platter, contrassegnate da eleganza, suoni sospesi, note
lunghe ammalianti, parti strumentali e cambi di tempo. Molto buone anche John’s pool col suo perfetto crescendo e
Restart, tra Pink Floyd e i tedeschi
RPWL (con cui hanno in comune svariate influenze d’altronde). La lunga Four years in a while non ha fatto altro
che confermarmi l’impressione di trovarmi dinnanzi ad uno dei lavori migliori
che mi è capitato di ascoltare nel 2017. (Luigi Cattaneo)
The garden (Video)
grandi
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