sabato 9 settembre 2023

JUMBO, Alvaro Fella racconta 50 anni di musica

 


Appena ho scoperto di abitare a pochi km di distanza da Alvaro Fella, leggenda degli iconici Jumbo, ho pensato di sviluppare un’intervista su questi 50 anni di musica. Mi sono trovato dinnanzi un personaggio amichevole e al contempo riservato, una persona che mette a proprio agio chi ha di fronte, tanto che le domande che avevo preparato sono state presto dimenticate a favore di una chiacchierata di due ore tra vecchi amici …

Alvaro, sono passati più di 50 anni dall’uscita dei vostri lavori, riscoperti nel corso del tempo dagli appassionati di progressive. Se ti guardi indietro che emozioni provi?

Da quando abbiamo ripreso a fare concerti la cosa che più mi ha fatto piacere è vedere i tanti giovani presenti, che ci conoscono grazie magari ai padri o leggendo di noi su riviste, libri e internet. È qualcosa che mi fa sempre emozionare, come l’ultimo concerto fatto a Cascina Caremma. Nel periodo che va da fine ’60 a poco oltre la metà dei ’70 se guardi le classifiche c’era questo tipo di musica, c’erano i cantautori, era un periodo magico. Il prog italiano era mediterraneo, diverso da quello inglese, eravamo dentro una novità senza saperlo. Come italiani avevamo una cultura melodica accentuata che si rifletteva sul progressive. Tutti noi venivamo dal beat, dalle balere, si suonava il giovedì, il sabato e la domenica. Ci si muoveva per passione più che per didattica.

Si può dire che la vostra è stata una generazione che aveva voglia di emergere, di esprimersi, perché per creare qualcosa che rimane a distanza di così tanto tempo ci deve essere una sorta di invisibile magia.

Sì, erano decine e decine le band che suonavano e se trovavi l’etichetta discografica giusta andavi direttamente in studio per registrare. Era completamente diverso da oggi. Noi tramite Maurizio Salvadori della Trident giravamo con Biglietto per l’inferno e Battiato, andammo a Napoli ad esempio, fu un periodo speciale. Con Battiato suonammo anche al Lirico di Milano, dove Franco fece uno spettacolo molto sperimentale e mistico.

Eravate dentro la Storia senza accorgervene … 

Si e non solo noi, nessuno si accorgeva di cosa stavamo vivendo. Ancora adesso ricevo messaggi da Brasile, Messico, Corea del Sud, Francia. C’è una passione per il prog italiano incredibile, in Giappone poi non ne parliamo. Probabilmente in quegli anni abbiamo creato una musica nostra, non solo perché abbiamo ascoltato gli inglesi. Certo io avevo i Beatles come riferimento, avevo Hendrix. La rivoluzione culturale diede l’opportunità di non avere più solo la classica canzoncina, era un modo nuovo di interpretare e di creare. I Beatles furono uno spartiacque. L’Italia aveva la sua Storia, con l’opera, le melodie. È la nostra tradizione. Ed era comunque insita in noi. Devo dire che forse c’era più curiosità. Quando arrivavamo in qualche locale a suonare e c’era il pubblico che ballava era lo stesso che poi si fermava ad ascoltarci con attenzione. E proponevamo cose nostre, non cover!

Già nel ’70 tu incidi due 45 a nome Jumbo con la Numero Uno, che ricordi hai di quel periodo? 

Negli anni ’60 suonai in diversi gruppi beat, tra cui i Juniors, con cui feci tantissime serate e in una di queste, a Limbiate, venne ad ascoltarci Silvio Crippa, che poi divenne il mio produttore. Crippa mi trovò il contratto con la Numero Uno per un 45 giri. In quel periodo scoppiò il boom di In the summertime di Mungo Jerry e decidemmo di fare una versione in italiano come si usava in quegli anni, con il testo di Bruno Lauzi. Sandro Colombini, che era il direttore dell’etichetta, insieme a Crippa, pensarono ad un nuovo nome per lanciarmi e siccome in quei giorni c’era stato un dirottamento aereo, un Jumbo per l’appunto, da parte di alcuni terroristi, si decise che poteva essere quello adatto. In studio per registrare il pezzo c’erano Di Cioccio, Lavezzi, Premoli, Longhi, che allora era il chitarrista di Flora Flauna e Cemento, che tra l’altro scrisse il lato B di questo 45. Dopo 10 giorni che era uscito da Londra arrivò l’ordine di ritirare le copie perché vi era un divieto di fare una versione italiana del brano, quindi tornammo in studio e incidemmo Montego bay di Bobby Bloom. Successivamente passai in Phonogram e lì poi nacque la vera storia della band.

Difatti tu incidi il primo disco nel 1972

Lo registrai a fine ’71, con Sergio Conte, Vito Balzano, Daniele Bianchini e Aldo Gargano, questi ultimi due conosciuti al Carta Vetrata di Bollate. In studio sentimmo l’esigenza di trovare un altro sound e Crippa ci portò Dario Guidotti con il suo flauto. In studio nacque questa unione tra di noi e decisi che i Jumbo sarebbero diventati una band e non un percorso solista.


DNA
esce a distanza di pochissimo dal primo disco.

Si, stavamo preparando dei brani nuovi con l’apporto di tutti, come Suite per il signor K ma nel mentre andammo a Roma per suonare al Festival Avanguardie e Nuove Tendenze al Foro Italico. Ricordo che durante il soundcheck facemmo tutta la suite, la suonammo interamente e chi ci ascoltò rimase molto colpito, era inusuale perché solitamente i soundcheck si concludevano in pochi minuti! Andammo subito in studio di ritorno da Roma, per sfruttare l’onda lunga dei Festival e dei concerti che si facevano. L’impresario era appunto Salvadori, che portò in Italia per la prima volta i Genesis. Noi e gli Osanna aprimmo proprio ai Genesis al teatro Alcione di Genova per la loro seconda tournè in Italia. Pensa che il pubblico era lì più per noi e gli Osanna che per i Genesis. Aprimmo anche per Amon Düül e Amazing Blonde in quel periodo.

Invece come fu accolto Vietato ai minori di 18 anni, un disco che affrontava anche temi spinosi. 


Il cambio di batterista, Tullio Granatello per Balzano, ci portò ad un ulteriore evoluzione del sound. Io avevo scritto dei testi abbastanza crudi, fu vietato dalla Rai e solo Come vorrei essere uguale a te non fu censurato. Anche gli arrangiamenti erano molto legati ai testi. La casa discografica ci aveva dato la possibilità di usufruire di una sala prova vicino Lambrate e lì lavorammo per un mesetto, dove imparammo anche a conoscere meglio Tullio. In quel periodo vivevamo come musicisti, seppure si guadagnava pochissimo. Purtroppo ad un certo punto dei ’70 fare concerti divenne complesso, non si potevano fare i festival all’aperto, era difficile ottenere i permessi, ai live c’era molta politica, volevano musica gratis, libera. Basti pensare a quello che successe ai Led Zeppelin al Vigorelli ma anche ai Chicago all’Arena. Anche l’avvento delle discoteche fece il resto, un cambiamento dei tempi evidente.

Come ci si sente ad essere uno dei punti di riferimento del progressive italiano?

Credo che tanto sia dovuto al fatto che eravamo molto personali, anche per il mio modo di cantare e per le tematiche. Qualcuno ha anche storto il naso negli anni per come canto ma certi temi credo che non potessero essere espressi in modo differente, mi ha sempre interessato esprimermi per come sentivo le cose. 


Nel 1983 pubblicate Violini d’autunno, come nacque quella pubblicazione per Mellow Records?

Daniele ci teneva a fare un altro disco, io avevo qualche brano nel cassetto e lo registrammo con Granatello alla batteria e Paolo Guglielmetti al basso, in casa, in maniera del tutto autonoma. Riuscimmo a fare anche qualche concerto in quel periodo.






Nel 90 esce Live, sempre per Mellow 

Sì, una serata di inizio anni ’90 a La Cigale di Parigi con IQ e Magma, organizzata da alcuni ragazzi appassionati di prog italiano, degli universitari. Partirono da Parigi in treno, arrivarono alla stazione centrale di Milano, si procurarono una guida telefonica di Milano e chiamarono i membri della band presenti sull’elenco! Io abitavo a Baranzate e quindi non mi trovarono! Andammo a Parigi in formazione originale, eccetto Paolo Dolfini alle tastiere che sostituì Sergio Conte in quell’avventura. Tra l’altro non si poteva registrare la serata ma con noi c’era Lino Gallo, ex chitarrista della Treves Blues Band, aveva un registratore nascosto e da lì abbiamo creato l’album, un bootleg in sostanza. Fu comunque una grande soddisfazione essere scelti tra i tanti gruppi italiani di progressive.



Passing by invece è un disco del 2001?

È uscito come Jumbo ma è un lavoro di Bianchini in toto.

Un’ultima domanda di rito, che programmi avete per il futuro?

Adesso come Jumbo originali siamo rimasti in tre, io, Sergio e Dario. Con noi c’è il batterista dei C.A.P., con cui ho inciso Coraggio e mistero e Marco Croci, ex Maxophone, al basso. Abbiamo registrato l’ultimo live a Cascina Caremma e l’idea sarebbe di pubblicare Cd, vinile e DVD dello spettacolo. Lì abbiamo suonato con La Maschera di Cera, che ho trovato molto bravi davvero. Abbiamo un po' di materiale nuovo comunque e l’intenzione è di fare un album possibilmente. Personalmente invece mi piacerebbe pubblicare qualcosa a mio nome, ho brani di vario stile. Sai ho attraversato diverse epoche ma l’amore per James Brown e Wilson Pickett è rimasto e ho una ventina di pezzi pronti e li vorrei pubblicare. Per quanto riguarda suonare live con i Jumbo non è semplice. Abbiamo fatto qualche data a Roma, a Genova, poi la pandemia ci ha bloccato del tutto.



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