mercoledì 26 ottobre 2022

JANUS, Al maestrale (1978)

 

Caso raro di band nata all’interno dei movimenti politici di destra, gli Janus di Mario Ladich (oltre al batterista non si conoscono i nomi dei musicisti che hanno partecipato alla registrazione di Al maestrale) soffrirono parecchio per emergere nel panorama progressivo dei ’70, cosa che effettivamente non fecero mai, salvo poi essere riscoperti decenni dopo con la rivalutazione di quel periodo storico. Materia per completisti insomma, o per curiosi che vogliono capire se la colpa fu tutta dei giovani della sinistra italiana, che organizzavano festival e concerti, o se la qualità complessiva degli Janus era pochina. 



Noi come Janus eravamo un gruppo progressive rock, sia per i testi, sia per le musiche, sia per le grafiche. Unico nostro difetto, che ci portò a una completa emarginazione, era quello di essere chiaramente orientati politicamente a destra. Praticamente non c’era differenza d’ascolto tra noi e qualche altro gruppo non etichettato o etichettato a sinistra, ma la nostra appartenenza a una determinata area politica ci portò ad essere completamente emarginati nel mercato italiano, mentre invece in Giappone il disco uscì normalmente nei negozi (Fonte Mario Ladich a Eventi Pop. Anni ’70: quelli della contestazione. Rai 2 maggio 2004. Rock Map di Riccardo Storti, Aereostella 2009). 

An Adro è la gradevole introduzione di folk celtico giocata sull’interplay tra piano e flauto, mentre Al maestrale mostra una spinta più hard, dominata dal ruolo della chitarra, seppure permangono parti di flauto a sostegno di una voce a dir poco aspra e mai del tutto convincente. Trotto è una breve traccia strumentale per flauto e percussioni, che confluisce in Il ritorno del cavaliere nero, distorta e greve, prima di Il fuoco e la spada, che posta a metà del disco mostra l’intenzione di Ladich di confrontarsi anche con qualcosa di maggiormente strutturato, seppure il risultato non è eccelso. La brevissima Neapolis anticipa Manifestazione non autorizzata, che si muove sul confine con il punk, e King of the fairies, un piacevole strumentale che nelle intenzioni compositive cerca di avvicinarsi a band enormi come Balletto di Bronzo e Biglietto per l’inferno. Tempo di vittoria è l’inno che chiude il lavoro, purtroppo inficiato da una registrazione davvero poco professionale, aspetto che emerge sovente tra le trame del disco. In conclusione si può affermare che l’idea di fondere hard, progressive e folk nel 1978 era già prassi e gli Janus non emersero da quella scena probabilmente anche per questo (e non solo per motivi ideologici, che a dirla tutta sembrano decisamente meno significativi di quanto affermi Ladich). L’essere arrivati in ritardo rispetto alla grande esplosione del genere non diede la notorietà pure ad altre realtà dell’epoca, basti pensare alla Locande delle Fate e al loro bellissimo e decisamente più meritevole Forse le lucciole non si amano più del 1977. 



La prima stampa dell’album, uscita in mille copie, è praticamente introvabile, anche perché buona parte bruciarono nell’incendio di una libreria dove si trovavano, e negli anni è stato ristampato alcune volte su formati diversi (Mc, Cd, Lp), di cui l’ultima in vinile nel 2012 da Extremocidente e Rupe Tarpea. Quest’ultima ha addirittura pubblicato un tributo agli Janus (comprensivo di due inediti del 1981) e un ep 33 giri, Lo nero metallo nostro, che presenta tre brani suonati live al Campo Hobbit del 1977 (manifestazioni del MSI di cui si tennero 4 edizioni tra il 77 e il 1981). (Luigi Cattaneo)



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