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Si può sostenere che nei quasi 20 minuti
dell’iniziale title track, che occupa ben metà disco, l’autore sviscera tutte
le componenti che hanno contraddistinto la sua musica. Psichedelia, folk, rock
progressivo, l’oriente a cui guardava con interesse e curiosità, si mescolano
in un calderone eccitante, ipnotico,figlio dei tempi. Poi puoi andare dove vuoi, poi puoi essere come vuoi, poi puoi stare
con chi vuoi, poi puoi prendere o lasciare, poi puoi scegliere di dare ... Diventa
frase manifesto di questa lunga composizione, passo semplice, lineare, ma
capace di spiegare al meglio cosa animava lo spirito di Rocchi e di una generazione che voleva
esprimere i propri ideali con forza. Anche la successiva La realtà non esiste diventa da subito un attestato credibile
dell’espressività di un’artista, che riesce in maniera essenziale e grazie al
fine tocco di Pezza al pianoforte a
catturare e a convincere in un sol colpo pubblico e critica. Giusto amore non raggiunge lo status di
evergreen come i primi 2 brani ma si contraddistingue per un lavoro d’insieme
ben riuscito, anche se forse avrebbe beneficiato in fluidità se fosse stata un
po’ meno lunga (supera i 10 minuti), visto che tende ad essere in alcuni
frangenti un po’ ripetitiva. Ho sempre apprezzato la conclusiva Tutto quello che ho da dire, malinconico
viaggio interiore in cui la voce di Rocchi si fa accompagnare dal Mellotron di
Pezza, che accentua ancor di più il carattere criptico ed introspettivo di
questo finale.
Un album simbolo del cantautorato progressivo,
un lavoro che Rocchi stesso cercò in qualche modo di riproporre con il
successivo La norma del cielo
(un’altra analogia con Sorrenti), non riuscendo a replicarne del tutto la
bellezza e le felici intuizioni. (Luigi Cattaneo)
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