domenica 6 gennaio 2013

ALAN SORRENTI, Come un vecchio incensiere all'alba in un villaggio deserto (1973)

Con Come un vecchio incensiere all’alba in un villaggio deserto Alan Sorrenti tentò nel 1973 di replicare quanto di buono era emerso da Aria. Fu probabilmente un tentativo di sfruttare la buona vena che era trapelata dal primo album e l’accoglienza positiva che gli avevano tributato stampa e critica. Difatti il disco ricalca non solo nello stile ma anche nella struttura il precedente, con tanto di suite della bellezza di 23 minuti… Qualcosa però non funzionò adeguatamente. E non si può certo parlare di mancanza di mezzi quando in studio si hanno personaggi del calibro di Toni Esposito alla batteria, Ron Mathienson al contrabasso, Francis Monkman dei Curved Air al piano, ai sintetizzatori e alla chitarra elettrica e David Jackson dei Van Der Graaf Generator al flauto (anche se per 2 brani soltanto). A che cosa allora è imputabile la parziale delusione degli ascoltatori, siano essi più attempati o nuove leve di simpatizzanti della ostica materia progressiva? La risposta probabilmente è multipla, anche se risulta palese come le tracce presenti in questo secondo lavoro soffrano e molto il paragone con quelle presenti nel primo e l’averne voluto ricalcare lo schema non appare a posteriori un’idea geniale. Mancanza di ispirazione dunque che non permette all’album di decollare se non in alcuni momenti, in special modo quelli più comunicativi e meno sperimentali. Anche questo alla lunga da punto di forza diventa arma a doppio taglio. Perché se è vero che la vena “estrema” e il taglio avanguardistico avevano sedotto e catturato, qui finiscono per creare del tedio che si sarebbe potuto evitare con qualche accorgimento in più. Quando sperimentare diventa fine a sé stesso il rischio noia resta in agguato dietro l’angolo. E allora si diverte a  spuntare nelle trame ricercate di Oratore, nella melodia semplice semplice di A te che dormi e nella prima parte, a tratti insopportabile della title-track (farcita di vocalizzi free e suoni del synth in estrema libertà). Fortunatamente addentrandosi nella seconda metà le cose migliorano anche se l’emulazione di Aria (la suite) non riesce del tutto. Ed è un vero peccato perché se in questo caso si fosse tagliato invece di aggiungere ci si sarebbe potuti trovare dinnanzi ad un brano di ben altra caratura. Anche perché è chiaro come questa lunga composizione doveva essere il fiore all’occhiello di tutto il disco e a giudicare da come è stata effettivamente costruita forse dell’intera, seppur breve a quei tempi, carriera del cantante partenopeo. Ma questo è il primo Sorrenti. Uno che ha saputo infastidire e affascinare.  E che anche in un album meno riuscito riesce a dimostrare le sue qualità vocali, il suo essere artista unico nell’approccio innovativo con lo strumento voce, una pecularietà che come già raccontato era riscontrabile in pochissimi altri cantanti. Sono presenti comunque dei brani che vale la pena menzionare e assaporare, piccole sorprese che conquistano, come la doppietta iniziale formata da Angelo e Serenasse in cui si può godere dei raffinati impasti con cui vengono amalgamate le due tracce e che lasciano trasparire quella vena melodica che di lì a poco farà la fortuna di Sorrenti. Colpisce in Angelo il clima dato dagli strumenti acustici e dal tocco sempre impeccabile di Esposito alle percussioni, oltre che dalla prova di Sorrenti vicino ancora una volta al sommo Tim Buckley. Nella seconda è invece registrabile la presenza significativa di Jackson al flauto che impreziosisce una ballata dolce, curata e piuttosto accessibile rispetto ai suoi standard. Anche Una luce si accende è annotabile tra i brani meglio riusciti dell’opera, soprattutto per la presenza del violino suonato da Toni Marcus che sa essere evocativo e intraprendente allo stesso tempo. Delineato il quadro si può trarre qualche conclusione. Ossia che i buoni momenti non mancano ma si alternano ad altri che denotano una certa stanchezza, non raggiungendo la grazia e l’intensità espresse in Aria. Si può affermare che gli esperimenti vocali di Sorrenti sussistono e si muovono con richiami anche a personaggi di un certo calibro come Peter Hammil. E se allora il problema fosse rappresentato proprio dall’eccessiva ambiziosità del progetto non sostenuta completamente dall’effettiva verve o capacità di un artista che dopo pochi anni avrebbe guardato decisamente altrove? Che il buon Alan si sia macchiato di eccessiva pretenziosità? Perché essere innovativi o almeno provare ad esserlo senza un’adeguata inventiva può diventare un gioco pericoloso…Da lì in poi la carriera di Sorrenti prenderà una piega ben diversa a partire già dal disco omonimo dell’anno seguente dove appare la contestatissima, almeno all’epoca, Dicitencello vuje. (Luigi Cattaneo)
     

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