La band toscana guidata
dal polistrumentista Maurilio Rossi
e dal chitarrista Gianni Rossi torna
dopo l’acclamato In the house of the dark
shining dreams del 2007 con un
album che fa il bis in termini di bellezza e coinvolgimento. L’esperienza del
gruppo nel costruire sonorità gotiche e magniloquenti è il marchio di fabbrica
che accompagna i fiorentini dal 1983, anno della loro prima apparizione
discografica. La carne al fuoco in questo Masquerade
è davvero tanta, vista anche la durata del disco che sfiora gli 80 minuti e
che è colmo di riferimenti verso la musica dei ’70. La partenza è affidata alla
potente ed incisiva Fever Called Living che
mostra subito tutte le capacità del gruppo di creare soluzioni ora più hard ed
aggressive ora più morbide e melodiche attraverso un interplay molto azzeccato
tra la chitarra e le tastiere. La seguente Eldorado
si sviluppa attraverso 2 parti ben distinte tra loro, con la prima che rimanda
a certo hard rock tipicamente seventies di mostri sacri come Led Zeppelin e Deep Purple e la seconda che si dispiega come una cavalcata heavy
prog totalmente strumentale. Anche Last
Knowledge si divide in 2 sezioni, dove la prima prende la forma di una
seducente ballata impreziosita dal flauto di Francesco Diddi mentre
la seconda, strumentale, è decisamente più inquietante e richiama i King Crimson. Delicate atmosfere si
ritrovano anche nell’ottima The Judge,
contrassegnata ancora dal flauto di Diddi
e dalla chitarra di Maurilio Rossi
oltre che in Valley of Unrest, song
tra le migliori presenti e che tra i suoi solchi riprende il magma sonoro
tipico dei Van Der Graaf Generator,
soprattutto per l’utilizzo del sax e per il crescendo oscuro e solenne del
brano. Ancora una composizione in 2 parti è To
Helen, che ha nei suoi cromosomi elementi di vario tipo; difatti dopo
un’apertura classicheggiante il brano sfocia in un hard sinfonico dove
l’aggressività vocale di Maurilio Rossi
viene stemperata dall’utilizzo accorato del flauto e del violino che tanto
sanno di Jethro Tull ma anche di Delirium e P.F.M. Decisamente più suggestiva è la seconda metà, nuovamente
strumentale, dove anima guida diviene il sax a cui si aggiungono parti di
flauto in sostegno. Densa ballata è Alone,
intrisa di lirismo e fortemente evocativa anche per merito della sofferta
interpretazione canora, mentre la seguente Slave
of the holy mountain ha un mood drammatico e orchestrale dal sapore gotico.
Dreamland è uno dei punti di forza
dell’album, un brano da Rock Opera o
da Musical vista la prorompente carica e il pathos costante che emana per tutta
la sua durata. Molto convincente la voce ruvida ed espressiva di Maurilio e il suo solo finale di
chitarra con cui chiude il brano. Dopo la strumentale The Haunted palace si arriva alla title track, suite finale divisa
in ben 5 sezioni della durata complessiva che supera i 13 minuti. Qui i Goad
tentano di sintetizzare (non riuscendoci però in pieno) tutte le influenze da
cui sono ispirati e quindi si passa attraverso momenti soffusi e sognanti ad
altri sicuramente più oscuri e psichedelici. Questo Masquerade rappresenta benissimo quelle
che sono le caratteristiche dei Goad, sempre in bilico tra il progressive
inglese, la psichedelia, il dark e la Rock Opera. (Luigi Cattaneo)
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