giovedì 9 aprile 2015

SANHEDRIN, Ever After (2011)


L’AltrOck di Marcello Marinone è oramai una delle case discografiche più quotate del circuito internazionale e sono anni che produce dischi di band proveniente dai più svariati paesi (basti pensare ai greci Ciccada o ai bielorussi Worm Ouroboros). In tal senso non è quindi una novità l’esordio degli israeliani Sanhedrin, che nelle loro corde hanno i cromosomi del progressive inglese e del Canterbury sound, con in testa gli album dei Camel e i suoni tipici del jazz (anche se quest’ultima caratteristica risalta meno). L’iniziale Overture spiana la strada al disco mostrando le coordinate sul quale si muove il suono Sanhedrin, quindi belle parti di flauto ad opera di Shem Tov Levi, già noto in Israele per la sua militanza nella prog band Sheshet e un ottimo lavoro del chitarrista Gadi Ben Elisha che si dimosterà molto ispirato per tutta la durata dell’album. Il tredici mostra l’ampia tavolozza di colori che padroneggiano i cinque israeliani, che risultano abilissimi nel creare melodie piacevoli già dal primo ascolto senza cadere nello scontato e nel melenso. Il brano si dipana tra morbide parti flautate e ispiratissimi soli di chitarra di chiara derivazione inglese, su cui è possibile scorgere la solidità dell’intera formazione. Si citano i Camel ma anche la psichedelia e questa long-track che supera gli 11 minuti di durata mette a fuoco già le grandi qualità compositive di cui sono in possesso i Sanhedrin. Dark Age inizialmente si fa carico di una melodia medievale per poi espolodere in una vibrante e carica progressive song con le tastiere di Igal Baram protagoniste di aperture classicheggianti e vintage. Anche qui la band dimostra brillantezza esecutiva e capacità di confrontarsi con partiture complesse senza perdere il bandolo della matassa e soprattutto senza risultare stantii. Bellissima anche The Guillotine, suggestiva ed evocativa, colpisce per le calde atmosfere dettate dal flauto e dall’organo e per l’eleganza con cui l’ensemble crea trame sinfoniche volutamente retrò ma di sostanziale effetto. Fa piacere notare come anche nei passaggi più rock mantengano un livello di grazia e di calore davvero invidiabile. Timepiece pur risultando gradevole e orientata nuovamente a richiamare i mostri sacri del genere è forse il momento più debole dell’album o quantomeno il meno interessante. Molto meglio la successiva Sobriety, davvero stupenda nel suo andamento prima giocoso e pittoresco, con uno sguardo rivolto tanto al prog inglese quanto a quello di casa nostra e poi quasi malinconico, autunnale, vicino in alcuni passaggi ai migliori momenti dei Pendragon o degli IQ. Qui i Sanhedrin costruiscono un apparato strumentale carico di emotività e capace di mettere in luce la loro classe cristallina. Steam con i suoi quasi 10 minuti chiude ottimamente il disco, racchiudendo in sé l’enorme potenziale della band e tutte le caratteristiche che contraddistinguono questo debut. Per tutti gli amanti del prog sinfonico settantiano che adorano suoni vintage e composizioni assolutamente rivolte verso il passato questo è un disco da avere ad ogni costo. Se siete tra quelli che invece hanno uno sguardo proiettato sempre verso il futuro del progressive forse quest’album vi dirà poco o nulla. Un consiglio personale? Fermatevi e lasciatevi trascinare indietro nel tempo almeno per un po’ … (Luigi Cattaneo)

Il Tredici (Video)

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