Abbiamo già parlato del
talento di Dwiki Dharmawan in occasione delle due precedenti uscite, So far so close (2015) e il doppio Pasar Klever (2016) e il recente Rumah Batu è la conferma della bravura
compositiva del tastierista indonesiano, qui accompagnato dall’istrionico
Nguyên Lê (chitarra e soundscapes), dallo spagnolo Carles Benavent (basso), da Yaron
Stavi (contrabbasso) e da Asaf Sirkis (batteria). Questo nuovo album è un
melting pot di jazz, progressive e world, soprattutto nelle parti vocali nella
lingua madre, che rendono il tutto molto particolare e a tratti ostico ma
estremamente affascinante (come la lunga Paris
Barantai con Sa’at Syah alla voce, impegnato in quasi tutti i pezzi del
disco anche al flauto). Dwiki d’altronde è sempre stato un maestro nel proporre
una sua personale visione del jazz rock, con trame spesso molto strutturate (la
brillante Rintak Rebana) e
arrangiamenti fantasiosi, caratteristiche che contraddistinguono anche il nuovo
disco e che probabilmente si spinge anche oltre le più recenti visioni
personali dell’autore, che sembra guardare con più attenzione al suo paese
natio, con la delicata Impenan che
pare essere uno dei manifesti di questo suo desiderio. Il mood etnico di certi
momenti (il traditional del Bali Janger)
appare più marcato rispetto alle precedenti uscite, forte di una visione
d’insieme sempre molto libera, spirito che d’altronde anima da sempre anche la
Moonjune, ancora a fianco di Dwiki anche per Rumah Batu. Il lavoro di squadra trova nella lunghissima suite centrale
di circa ventisei minuti, che dà il nome all’album, la sintesi dell’opera, sia
perché nasce da un traditional dell’isola Sulawesi, sia perché è firmata da
tutti e cinque i musicisti della band, che si destreggiano tra partiture
complesse e decisamente articolate. L’evoluzione di Dharmawan tratteggia anche
le conclusive Samarkand e Selamatkan Orang Utan, la prima è un
frizzante jazz rock piuttosto coinvolgente, mentre la seconda sposta il tiro
nuovamente sul lato etnico della proposta, con la forte presenza di Syah e le
Kendang di Ade Rudiana (che a dire il vero ritroviamo in buona parte del disco),
che chiudono un ritorno davvero pregevole per il tastierista indonesiano.
(Luigi Cattaneo)
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