I Quasar nascono nel
2014 da un’idea di Andrea Balzani, pianista che avevamo già incontrato nel
progetto Tzad e Alessandro Farulli, batterista già in forza nei Forgotten
Prisoners, a cui si sono aggiunti Jean Pierre Brunod alla chitarra e Francesco
Napoleoni al basso. La band propone un progressive strumentale in cui non
mancano riferimenti al mondo ambient, orchestrazioni classicheggianti e mood da
colonna sonora, connubi che rimandano a Dream Theater, Goblin, Pink Floyd,
Nucleus e Circus Maximus. Il prog metal di partenza si contamina con umori anni
’70, lasciando da parte l’idea di mostrare solo i muscoli e la perizia tecnica,
riuscendo così a divenire comunicativo ed emozionale. Gli echi settantiani non
sono esclusivamente quelli del prog rock ma si avvicinano alla psichedelia
floydiana, evocata ma non scimmiottata nell’iniziale Nowhere, merito soprattutto del tocco space di Balzani e dei
vibranti passaggi dipinti dal bravo Brunod. La lunga Lost inside ha dentro le varie anime del quartetto, unisce la
passione per l’heavy con fraseggi atmosferici, rimanda ai Goblin, soprattutto
per il raffinato lavoro di Balzani, collante di un grandioso brano,
stratificato e solennemente melodico. Domino
rallenta, districandosi in percorsi da soundtrack del cinema di genere
tanto in voga più di 40 anni fa, mentre Vertigo
accelera in direzione di un progressive metal compatto e vigoroso, con le
tastiere di Balzani che dettano la linea in un bel interplay con una sezione
ritmica decisa e i riff di Brunod, che vanno a formare uno dei pezzi migliori
del disco. A metà album arriva Vain
spaces, composizione che mi ha ricordato sia i Goblin che alcune cose di
Allan Holdsworth, buona per introdurre Solitude,
malinconica e notturna, altro episodio di grande rilievo son solo tecnico ma
anche di pathos. Dominated è un
sontuoso dark prog di matrice hard, un treno in corsa accostabile ai Daemonia e
all’ultima incarnazione heavy dei Goblin, prima di The skies of mind, decisamente più atmosferica ma ancora una volta immaginifico
spartito di un thriller argentiano, in cui le tastiere tornano ad essere
protagoniste assolute. Il finale di The
light forest è la sintesi del pensiero dei romani, tastiere a profusione,
Brunod che si divide tra delicati arpeggi e soli metal, ritmiche precise e
coese, passaggi soavi che si scontrano con altri piuttosto energici, nove
minuti che rappresentano la perfetta conclusione di un platter che meriterebbe
di essere apprezzato da un pubblico decisamente più ampio. (Luigi Cattaneo)
Qui di seguito il link per ascoltare l'intero lavoro
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