domenica 10 febbraio 2013

BALLO DELLE CASTAGNE, Kalachakra (2011)

Dopo l’omonimo album di debutto del 2010 torna il Ballo delle Castagne e lo fa con un lavoro che si muove lungo i binari tracciati già nel precedente lavoro. La band milanese si muove sempre in bilico tra psichedelia, dark prog dai forti riferimenti agli anni ’70 e new wave e ciò produce sonorità interessanti ma che hanno ancora bisogno di essere collaudate a dovere per funzionare completamente. L’inizio è affidato a Passioni diaboliche (anche primo singolo), il brano più immediato dell’intero lavoro. Indubbiamente è l’opener giusta per aprire l’album: il cantato di Vinz Aquarian ben si amalgama con la voce di Carolina Cecchinati degli Egida Aurea e la tensione si stempera al meglio nella seconda metà della composizione quando, guidata dal suono dell’organo di Marco Garegnani, la song ci riporta con la mente agli anni ’70, complice anche il finale ben orchestrato. Davvero un ottimo inizio. Peccato che la successiva Tutte le anime saranno pesate non mantiene il groove che si era venuto subito a creare. Il basso pulsante di Diego Banchero si mescola con suoni di stampo elettronico e la voce sempre più sinistra e teatrale viene sostenuta da una cupa melodia che attraversa per intero il pezzo, fino all’intermezzo chitarristico di Garegnani, che seppure interessante, non risolleva del tutto le sorti del brano. Sotto la spinta del basso di Banchero si presenta anche I giorni della memoria terrena, ottima ballata, malinconica, suggestiva e dai tratti gotici, lascia trapelare un certo amore verso la new wave (vengono in mente Joy Division e Diaframma), complice anche il lavoro ritmico di Banchero e di Jo Jo alla batteria. Il brano riesce ad essere sinistro ma nello stesso tempo ha un carattere fortemente melodico che lo rende particolarmente incisivo. A metà lavoro viene posta l’energica title track, molto vicina per sonorità al clima degli seventies, soprattutto nella parte iniziale. La tastiera e la chitarra si intrecciano e ci riportano direttamente al periodo aureo del progressive italiano, mentre il cantato di Vinz viene sorretto prima e poi sovrastato dal suono del sitar che trasforma il brano in un autentico mantra psichedelico. Il sitar diventa inevitabilmente protagonista della composizione, incastonandosi perfettamente all’interno dello spettro sonoro del gruppo, almeno sino al finale, quanto l’immancabile organo scuote e sostiene l’intera band. La successiva La terra trema è la traccia migliore dell’opera, un grande brano di progressive psichedelico di quasi 7 minuti. Il cantato si fa più intenso e vibrante, il suono dell’organo (davvero ben utilizzato) combatte con l’aggressiva chitarra di Garegnani, mentre Banchero e Jo Jo sorreggono ottimamente l’intera struttura compositiva. Il break strumentale posto a metà del brano e il validissimo apporto del violino suonato dall’ospite Marco Cavaciuti nel finale completano egregiamente il quadro. Da qui in poi però iniziano le note semidolenti che non ti aspetti. Perché se fin qui il disco non aveva avuto grossi cali di tensione e la scrittura era apparsa brillante e gradevole, le ultime tre tracce si rivelano poco ispirate. Capire il perché non è facile. La fase discendente inizia con La foresta dei suicidi, 6 minuti in cui il gruppo propone uno strumentale molto atmosferico (anche troppo) dai contorni Kraut che risulta tedioso (forse anche per l’eccessiva durata) ed evanescente. I sintetizzatori disegnano soluzioni già sentite e ciò che probabilmente vorrebbe essere oscuro diventa privo di una reale forza. Difatti ci si aspetta un colpo d’ali, una sferzata da un momento all’altro che però inesorabilmente non arriva. Si ha l’impressione di una sperimentazione fine a sé stessa come avveniva talvolta per i corrieri cosmici o per Franco Battiato di inizio anni ’70. Leggermente meglio Omega che ha un inizio da inquietante spoken words, ricordando il mai dimenticato Antonius Rex, salvo poi avventurarsi in territori più attinenti al progressive nel finale con l’organo ancora in primo piano a tratteggiare una danza psichedelica, anche se il brano non riesce realmente a decollare. Chiude Ballo delle Castagne, altro episodio in chiave minore che conferma l’impressione di un calo d’ispirazione lungo la fase finale dell’album. La title track viene pensata come un rituale tribale ricco di suoni ed effetti, un mantra sabbatico cupo e ispirato dal post punk ma il risultato è piuttosto ripetitivo, senza un reale sbocco emotivo e trascina un po’ stancamente l’ascoltatore alla fine dell’opera. Un album quindi che purtroppo non è riuscito a convincermi del tutto proprio per questi cali di tensione e di qualità che pervadono parte del lavoro e che vanno ad inficiare il giudizio globale. Peccato davvero perché la prima parte del disco presenta spunti degni di nota e mette in mostra il potenziale del gruppo che appare ancora non del tutto espresso e messo a fuoco. (Luigi Cattaneo) 
 
Passioni Diaboliche (Official Video)
 
  
 
 

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